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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA

              FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA


              Corso di laurea in Scienze della Comunicazione




                     L’indignazione
                            e
                il potere delle immagini




           Tesi di laurea in Sociologia (Sociologia delle emozioni)




Relatore                                                Presentata da

Prof.ssa Turnaturi Gabriella                            Casoni Francesco




                              Terza Sessione
                        Anno accademico 2004/2005



                                                                           1
INDICE:




Introduzione.............................................................................................................pag. 5


1. Indignarsi ...........................................................................................................pag. 14


1.1. Una definizione
1.2. Compassione, pietà, indignazione
1.3. Rabbia, disgusto, indignazione
1.4. La passione come motivazione ad agire
1.5. Contro l’oblio: la strage di Bologna
1.6. Passioni civili
1.7. Una richiesta di giustizia


2. Parlare.................................................................................................................pag. 40


2.1. Dall’indignazione alla parola
2.2. Lealtà, defezione e protesta
2.3. Exit e Voice a confronto: costi e vantaggi
2.4. Modalità di azione collettiva
2.5. Pagare o parlare
2.6. La parola di denuncia
2.7. Il primato della parola


3. La simpatia.........................................................................................................pag. 61


3.1. Immaginare
3.2. Scoprire l’altro
3.3. Narrazione e simpatia
3.4. Nutrire l’immaginazione
3.5. Indignarsi oggi




                                                                                                                                2
4. Guardare.............................................................................................................pag. 80


4.1. Il potere delle immagini
4.2. Immagini ed emozioni
4.3. Immagini come vere: i Sacri Monti
4.4. I disastri della guerra
4.5. E poi venne la fotografia
4.6. Fotografia e indignazione


5. Usare la fotografia...........................................................................................pag. 103


5.1. Usi della fotografia
5.2. Strumento politico
5.3. Fotografia come testimonianza
5.4. Contro l’inimmaginabile
5.5. L’immagine immortale: immagini e memoria
5.6. Immagini e parole


6. Guerra alla guerra...........................................................................................pag. 128


6.1. L’altra faccia della guerra
6.2. Chi è Ernst Friedrich
6.3. Guerra alla Guerra: fotografia come terapia d’urto
6.4. L’inferno della guerra
6.5. La tomba dell’eroe
6.6. Il vero volto della guerra
6.7. Prevenire la guerra


7. Le immagini di Abu Ghraib............................................................................pag. 148


7.1. La scintilla
7.2. Il “caso” Abu Ghraib




                                                                                                                             3
7.3. La punta dell’iceberg
7.4. Perché sono state scattate?
7.5. Le immagini hanno “vinto”?
7.6. Responsabilità


8. Conclusioni.......................................................................................................pag. 170
8.1. Le immagini che indignano
8.2. Post scriptum


Bibliografia...........................................................................................................pag. 180




                                                                                                                             4
“Voglio che la gente che decide di votarmi
                                                                              sia indignata quanto me”1




      Introduzione


      Nelle pagine che seguiranno si discuterà del modo in cui le immagini di atrocità
provochino, o possano eventualmente provocare, l’indignazione nell’animo di chi
osserva. Quindi, collateralmente, la dissertazione riguarderà anche il modo in cui le
immagini possano essere usate per ottenere, attraverso la reazione emotiva scatenata,
una presa di coscienza da parte dell’osservatore che lo spinga ad agire per rimediare al
male di cui è testimone. L’indignazione, infatti, come illustreremo più dettagliatamente
nei primi capitoli, è una passione che non si consuma all’interno dell’individuo, ma
spinge ad agire nei confronti di ciò che l’ha scatenata.
      Prima di interrogarsi sul modo in cui determinate immagini possano indignare, è
però fondamentale chiedersi che cosa in generale origina l’indignazione. Posto che
esiste un ampio novero di motivi per cui ci si indigna o, per meglio dire, ci si dichiara
indignati – talvolta confondendo l’indignazione con la propria rabbia, il disgusto o la
compassione – l’evento che scatena l’indignazione può essere definito genericamente
come qualcosa che offende il nostro senso di giustizia. Ci si indigna nel vedere, o
semplicemente nel venire a conoscenza di un torto perpetrato ingiustamente nei
confronti di un nostro simile, che lo pone in una condizione di sofferenza, di
umiliazione, di privazione di diritti o anche solo di negazione della propria dignità, se
non di negazione della vita tout court. Chiaramente, per suscitare indignazione, la pena
a cui l’altro è sottoposto deve essere immeritata, o percepita come tale. Ciò significa che
la vittima può anche avere, per così dire, “meritato” di subire una pena a cagione di
qualche atto commesso, ma chi la vede soffrire per tale pena ritiene che il castigo sia
eccessivo, terribile, impietoso, umiliante o profondamente ingiusto.
      D’altro canto, chi protesta per l’esecuzione di un condannato a morte, si sente
indignato indipendentemente dal fatto che il giustiziato si sia reso colpevole
dell’uccisione di un altro individuo. Non c’è dubbio che l’uccisione di un innocente
contribuisca a far percepire la pena di morte come ancora più ingiusta, ma chi si oppone

1
    Dario Fo, candidato alle primarie come sindaco di Milano, The Guardian, Dicembre 2005



                                                                                                      5
ad essa lo fa anche, forse soprattutto, nei casi in cui il condannato è riconosciuto
colpevole, perché a suscitare sdegno è l’atto di uccidere una persona, anche se ciò
avviene nel pieno rispetto della “legalità”. Ci si può indignare in pari misura per quella
aberrante forma di condanna a morte costituita dalle esecuzioni mirate compiute
dall’esercito israeliano a danno di appartenenti ad Hamas o Jihaad Islamica, pur
continuando a condannare gli atti di violenza che tali organizzazioni infliggono alla
popolazione civile israeliana.
    Quando parliamo di giustizia, insomma, è bene precisare che non intendiamo di
certo la giustizia civile o penale, dalla quale, d’altra parte, possono dipendere atti
profondamente ingiusti: anche tralasciando il caso estremo della pena di morte, che altro
non è che l’esito finale di una procedura penale, persino un semplice processo, magari
fondato su ragioni sacrosante, può degenerare in uno spettacolo, o in un rituale di
degradazione in cui il condannato è offerto come capro espiatorio al pubblico ludibrio,
finendo insomma per trasformarsi in vittima. Ci si indigna quotidianamente per piccoli
casi di ingiustizie che, in realtà, sono atti perfettamente legali sotto il profilo giuridico:
per il proscioglimento di un criminale dovuto a vizio procedurale, prescrizione,
insufficienza di prove; per l’esecuzione di uno sfratto che sbatte in mezzo alla strada
una famiglia o che costringe un anziano a lasciare il quartiere in cui è vissuto, magari
per trasferirsi in un ospizio; oppure per la precarietà imposta all’esistenza dalla
cosiddetta “flessibilità” del lavoro, che costringe soprattutto i più giovani a guadagnarsi
da vivere arrangiandosi tra più lavori, con contratti a termine o a progetto che
garantiscono prospettive per il futuro pari alla durata (in mesi) dell’impiego. Ciò che
entra in gioco in questi casi è una concezione della giustizia intesa più strettamente
come ciò che ci appartiene come “giusto”, indipendentemente da una valutazione
istituzionale di legalità.
    Chiaramente, far dipendere l’indignazione da una concezione di “giustizia” così
definita, implica la possibilità che l’indignazione, e non solo la sua manifestazione
esteriore, sia culturalmente condizionata. D’altro canto, la stessa idea di “legalità” non è
certo universalmente condivisa: in alcuni stati americani la pena di morte è prassi
istituzionale, in Italia è largamente disapprovata. Addirittura, all’interno di una stessa
società, si possono scontrare diverse concezioni della legalità: c’è chi ritiene che
utilizzare squadre antisommossa armate di manganello e lacrimogeni per disperdere una




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manifestazione o un picchetto sia necessario per il mantenimento dell’ordine pubblico, e
chi invece lo considera un atto di violenza ingiustificabile. La guerra è ritenuta di volta
in volta un “male necessario”, se non un “atto umanitario” da alcuni settori ideologici,
non necessariamente i più estremisti. Per fare un esempio, in un’intervista rilasciata nel
1996, all’epoca del durissimo embargo imposto all’Iraq, al programma 60 Minutes della
Cbs (incidentalmente, proprio il programma che nel 2004 ha mostrato le foto delle
torture di Abu Ghraib), l’ambasciatrice americana all’ONU Madeleine Albright, alla
domanda se la morte di 500.000 bambini iracheni a causa delle sanzioni fosse stato un
prezzo che valeva la pena di pagare, rispose così: “Credo che sia una scelta molto dura,
ma il prezzo... riteniamo che valesse la pena pagarlo”2. I settori più radicalmente
pacifisti, quelli che ripudiano la guerra “senza se e senza ma”, invece, non potevano che
condannare un simile eccidio, per quanto compiuto con l’avallo delle Nazioni Unite.
Anzi, l’approvazione dell’Onu all’embargo apparve persino agli stessi cooperatori
dell’organizzazione3 come un tradimento degli ideali e degli scopi su cui era stata
fondata, che includevano “riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella
dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e
delle donne e delle nazioni grandi e piccole”4. (E, nel caso citato, l’indignazione è
doppia, perché scatenata non solo dalla morte ingiusta di centinaia di bambini iracheni,
ma anche dal cinismo delle dichiarazioni ufficiali.)
    Che l’indignazione subisca l’influenza del contesto culturale apparirà chiaro da
alcuni casi cui faremo riferimento nel corso della dissertazione, come quello descritto
dallo scrittore Alessandro Baricco in un articolo per La Repubblica e relativo ad una
mostra fotografica sui linciaggi attuati in alcune cittadine americane tra la fine
dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento5: in queste circostanze, gli abitanti
della città accorrevano addirittura in massa per farsi fotografare assieme al cadavere
dell’accusato. Non c’è traccia di indignazione nei volti delle persone in posa nelle
fotografie dei linciaggi, vere e proprie cartoline ricordo realizzate per l’evento. In una di
esse, relativa ad un linciaggio compiuto a Fort Lauderdale, in Florida, nel 1935, vi si

2
  Punishing Saddam, “60 Minutes”, CBS Television, 12 Maggio 1996, cit. in J. Pilger, I nuovi padroni del
mondo, Fandango, Roma 2002, pag. 63
3
  Non va dimenticato che, nel periodo delle sanzioni all’Iraq, furono numerosi i responsabili che si
dimisero in polemica con l’Onu, dichiarando di non voler essere complici di un eccidio.
4
  Carta delle Nazioni Unite, San Francisco, 26 Giugno 1945, preambolo (testo italiano approvato dalla
Società Internazionale per l’Organizzazione Internazionale).
5
  A. Baricco, Le cartoline della morte. Il linciaggio in mostra, La Repubblica, 14 Luglio 2000



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vede addirittura una bambina sorridente in mezzo alla folla dei curiosi. Al giorno
d’oggi, nella maggior parte dei casi, atti del genere risultano sconvolgenti agli occhi
degli stessi americani.
      Oltre a ciò, il fatto che le ragioni per cui ci si possa “indignare” siano molteplici
comporta anche la possibilità che l’indignazione sia connotata negativamente,
confondendola ad esempio con una rabbia civile senza senno. Scrive, ad esempio,
Giuseppe D’Avanzo su La Repubblica, a proposito delle polemiche sull’assoluzione, da
parte del tribunale di Milano, di cinque maghrebini accusati di aver arruolato e mandato
in Iraq mujaheddin per combattere le truppe americane: “l’indignazione non serve a
capire. Può infiammare l'opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono.
Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a
Milano, dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla
vigilia dell'attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell'Iraq”6. Altrimenti,
l’indignazione può essere considerata erroneamente una passione sterile e passiva, in
particolar modo da chi oppone il “fare” concreto ad un “parlare” che ritiene vuota
chiacchiera (tema di cui ci occuperemo nel secondo capitolo), come scrive William T.
Vollmann: “Siamo tutti inclini a vivere nelle comodità; e quando alcuni schivano le
gelide pendici del Nobile Principio, preferendo osservarle sotto di sé dal confortevole
altopiano della Profonda Indignazione, sarà meglio perdonarli; potremmo non essere
capaci di scacciarli, dato che avranno fortificato il loro accampamento”7.
      Alla luce di ciò, dunque, dedicheremo l’intero primo capitolo ad una definizione più
chiara possibile dell’indignazione, connotata nello specifico come una passione civile.
E’ una passione civile perché attiene alla nostra appartenenza ad una società e, in senso
più generale, al genere umano. Ciò che scatena l’indignazione è il torto perpetrato a
danno di un nostro simile. E’ civile perché è pubblica, in quanto si esprime non
attraverso gesti individuali, ma mediante azioni pubbliche basate sulla parola:
manifestazioni, atti di denuncia e di condanna, richieste di giustizia. E, infine, si può
definire civile anche perché, costituendo la scintilla da cui traggono origine cause civili,
può costituire la forza aggregante di gruppi sociali, civili e politici, che di queste cause
si fanno promotori, come le Associazioni dei familiari delle vittime di cui si tratterà nel
primo capitolo.
6
    G. D’Avanzo, L’indignazione e il diritto, La Repubblica, 25 Gennaio 2005
7
    W. T. Vollmann, Afghanistan Picture Show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova, 2005



                                                                                                     8
In questo capitolo, inoltre, cercheremo di distinguere più nettamente l’indignazione
da alcune emozioni con cui essa viene talvolta confusa: tracceremo dunque la differenza
tra la compassione, la pietà e l’indignazione, basandoci soprattutto su quanto scritto da
Hannah Arendt, nel secondo capitolo di Sulla Rivoluzione, e da Luc Boltanski in Lo
spettacolo del dolore; di seguito, distingueremo l’indignazione dalla rabbia e dal
disgusto, nell’intento di darne una definizione meno ambigua possibile.
   Dell’atto di parlare ci si occuperà più specificamente nel secondo capitolo,
prendendo in esame il testo fondamentale di Albert O. Hirschman (Lealtà, defezione,
protesta), alcuni saggi di Bourdieu che ne sviluppano i contenuti e, infine, il contributo
di Luc Boltanski, che oppone il parlare pubblico alla beneficenza individuale (pagare o
parlare, insomma). L’esame di questi contributi sarà, ovviamente, finalizzato a
delineare una definizione dell’atto di parola come qualcosa di non meramente verbale –
la cosiddetta parola “gratuita”, la vuota chiacchiera, il parlare per parlare – ma come
parola agente, che costruisce e mantiene coesi i gruppi sociali e che costituisce lo
strumento per eccellenza dell’azione politica. Dunque, considereremo la parola in
opposizione a quegli atti, come la rinuncia all’acquisto per protesta contro un’azienda, il
voto per un candidato politico o la beneficenza in denaro verso chi soffre che, pur
essendo considerati più prettamente “concreti”, pratici, effettivi della parola,
costituiscono però azioni individuali, al più aggregabili, ben lontane da una azione di
tipo politico o civile come quella che solo la parola può promuovere.
   Nel terzo capitolo si tratterà di un elemento fondamentale per il sorgere
dell’indignazione: la simpatia, intesa come la capacità di solidarizzare con gli stati
d’animo di un nostro simile. Verrà affermato che la simpatia basa la propria efficacia
sull’immaginazione, secondo quanto teorizzato da Adam Smith in Teoria dei sentimenti
morali, ovvero sulla capacità di immaginare se stessi nei panni dell’altro, raffigurandosi
i suoi stati d’animo come se li si vivesse sulla propria pelle. Sempre riferendoci a Smith
e a Boltanski, ma anche a quanto scritto da Martha Nussbaum sul romanzo e la tragedia
greca, sosterremo l’ipotesi che l’immaginazione tragga il proprio nutrimento non solo
dall’esperienza quotidiana, ma anche dall’esperienza indiretta che un gran numero di
prodotti culturali e mediali mettono a disposizione. D’altro canto, una larga fetta
dell’esperienza che l’uomo moderno ha del dolore è sempre più mediata non solo dalla
letteratura e dalla narrativa cinematografica, ma soprattutto dai mezzi di comunicazione




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di massa e dai nuovi media informativi. In conclusione al terzo capitolo, dunque,
lasceremo aperta una riflessione sulla possibilità che la diffusione di risorse informative
e culturali come la televisione e internet, ormai onnipresenti nell’esperienza quotidiana,
e il dominio che le logiche commerciali esercitano sulle produzioni culturali, influiscano
pesantemente sul formarsi dell’indignazione e sulle reazioni pubbliche ad essa
connesse.
   Dal quarto capitolo in avanti si analizzeranno più dettagliatamente le questioni
relative alla rappresentazione per immagini, soffermandosi sul caso specifico della
fotografia. Il primo problema da porsi riguarda il rapporto tra le immagini e le emozioni,
e quindi tra la fotografia e le emozioni, che vedremo essere più complesso di quanto non
possa apparire. In particolare, nell’esaminare i rapporti tra la fotografia e l’indignazione,
si renderà necessario rinunciare a qualsiasi determinismo causale, per sostenere, invece,
che la rappresentazione fotografica di sofferenze non necessariamente provocherà
indignazione. Non dimentichiamo che una fotografia costituisce solo un brandello di
realtà, non la realtà stessa, e dunque non sempre è in grado di fornire una conoscenza
dei fatti tale da condurre all’indignazione: nel vedere le sofferenze di un nostro simile,
senza conoscere le cause che le hanno generate, senza essere in grado di individuare un
carnefice non direttamente visibile, l’animo di chi osserva potrebbe essere spinto verso
la compassione, se non verso l’indifferenza. In realtà, come dimostreremo in questo e
nel successivo capitolo, il contesto in cui la foto viene inserita determina profondamente
le emozioni che genera.
   Dunque, si tratta soprattutto di considerare la fotografia come strumento e usarla
consapevolmente, con l’obiettivo di sfruttare le sue potenzialità per un intento preciso:
indignare e spingere a ribellarsi ad una condizione di ingiustizia. Nel capitolo 5,
pertanto, saranno prese in esame alcune caratteristiche della fotografia che ne
determinano l’utilità come risorsa per spingere all’indignazione: se è vero che non
necessariamente l’immagine di un’atrocità condurrà ad indignarsi (e, d’altro canto, il
punto critico non è nella fotografia, ma nella disposizione d’animo di chi guarda.
L’indifferenza non è prerogativa solamente di chi guarda sofferenze lontane, ma spesso
anche di chi queste sofferenze le percepisce a pochi passi da sé), sosterremo che è
comunque possibile sfruttare il potere delle immagini per mostrare ciò che le parole
possono falsare, o addirittura ciò che non può essere neppure immaginato – è il caso




                                                                                          10
delle immagini “rubate” da alcuni prigionieri nei campi di concentramento nazisti, di
cui ci si occuperà più dettagliatamente. Allo stesso tempo, sosterremo che l’immagine
ha ancora bisogno della parola per farsi capire: se l’intento di mostrare le sofferenze
altrui è spingere all’indignazione, si renderà indispensabile fornire all’osservatore una
certa quantità di informazioni (chi è la vittima? E’ parte di un fenomeno più esteso? Chi
sono i responsabili di tale sofferenza?) che la sola immagine raramente è in grado di
contenere, o che contiene in modo ambiguo. Le immagini dunque vanno fatte parlare –
o, per parafrasare John Berger (Sul guardare), devono essere dotate di una memoria che
non possiedono – ricorrendo ad espedienti retorici: la didascalia, per esempio, ma anche
l’accostamento con altre immagini, per cercare di rendere la fotografia sempre meno un
frammento isolato della realtà e sempre più parte di una struttura radiale che metta ogni
frammento in connessione con un altro, perlomeno tendendo a ricomporre il mosaico
della realtà.
    Nel sesto capitolo sarà approfondito il caso di Guerra alla Guerra, atroce galleria di
immagini della Prima Guerra Mondiale pubblicata nel 1924 dall’anarchico pacifista
Ernst Friedrich (e ristampato, almeno in Italia, solamente nel 2004, forse non
casualmente). Nel libro, che è un esplicito invito ad indignarsi e rivoltarsi in massa
contro la guerra, Friedrich adotta mirabilmente gli espedienti retorici di cui è in
possesso – in qualità di attore e di stampatore di testi politici – per rendere le sue
terribili fotografie ancora più eloquenti. Non si limita, insomma, a mostrare la morte
orribile, la sofferenza fisica, la devastazione portata dalla guerra, ma vuole anche
svelare l’ipocrisia e il cinismo dei governanti che mandano i soldati al massacro, dei
generali incolumi dietro le linee del fronte, dei potentati economici che sostengono le
guerre per curare i propri interessi. Friedrich ottiene il suo scopo non solo infliggendo al
lettore un crescendo ben calcolato di atrocità, ma commentando le fotografie con
didascalie sprezzanti, ironiche e taglienti. Più volte, come vedremo, Friedrich ricorrerà
all’abbinamento di più immagini significative per sostenere la propria tesi, per esempio
accostando immagini della morte terribile riservata ai soldati in trincea con quelle dei
governanti e degli alti gradi dell’esercito che si godono beatamente una scampagnata o
una tazza di tè.
    Il libro di Friedrich appare di notevole interesse per il tipo di foto di cui si avvale:
scatti neutri, perlopiù realizzati da soldati o da medici militari non certo con l’intento di




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commuovere, indignare o magari farsi beffe del nemico, ma assai probabilmente per la
banale ragione di “raccogliere dati”. Non vi vediamo, insomma, fotografie come quelle
a cui ci hanno abituato Robert Capa o Don Mc Cullin, in cui la guerra è ritratta
comunque attraverso l’occhio di un autore, e dunque con un intento preciso, che può
essere anche, semplicemente, quello di realizzare una bella foto. Le immagini di Guerra
alla Guerra parlano perché Friedrich presta loro la sua voce e le mette al servizio di una
causa. Prese da sole, costituiscono uno shock: rivoltano lo stomaco, fanno piangere,
contrarre il viso, emettere gemiti di disappunto. Ma non indignano, e dunque non fanno
parlare. Quello che Friedrich intende, invece, è realizzare un’opposizione attiva alla
guerra, che non sia quella dei “pacifisti borghesi che vogliono combattere la guerra con
i gesti dolci e le smorfie drammatiche (per esempio alzando gli occhi al cielo)”8, ma di
uomini e donne che scendono in strada gridando “noi ci rifiutiamo!”, che scioperino,
blocchino i treni in partenza, trattengano chi vuole partire per il fronte.
    Se trattando di Guerra alla Guerra si sarà esaminato un caso, per così dire, già
realizzato, nel settimo capitolo ci si interrogherà invece – e senza la pretesa di esaurire
un dibattito tutt’altro che chiuso – sulle immagini che nel Maggio 2004 hanno mostrato
ad una buona fetta di pianeta le torture perpetrate dai militari americani sui prigionieri
iracheni di Abu Ghraib. Il caso, s’è detto, rimane aperto perché, nonostante quelle
fotografie (e molte altre che sono seguite) abbiano sollevato un’ondata di indignazione
nel mondo occidentale e arabo, e nonostante lo scandalo abbia aperto la strada ad una
serie interminabile di denunce delle sevizie compiute dai militari americani, da agenti
della Cia e da contractors al servizio dell’esercito statunitense in Iraq, in Afghanistan, a
Guantanamo Bay ma anche in numerosi paesi mediorientali, asiatici e persino europei,
permane qualche perplessità: se è vero che le fotografie hanno costituito lo shock
iniziale da cui è nato lo scandalo, è altrettanto facile affermare che non è grazie alla
testimonianza delle immagini che giustizia sarà fatta, se questo mai avverrà. Le foto di
Abu Ghraib nascondono molteplici paradossi: nate per umiliare e sottomettere i
prigionieri del carcere, sono divenute poi atto di accusa contro i carcerieri. Ma c’è un
altro paradosso: se le foto sono una prova schiacciante, di fronte a cui Lynndie England,
Charles Graner, Sabrina Harman e gli altri torturatori identificati non possono più
dichiararsi innocenti, sembra che proprio l’esibizione dei responsabili ritratti dagli scatti
8
 E. Friedrich, Guerra alla Guerra. 1914-1918: scene di orrore quotidiano, Mondadori, Milano 2004,
pag. 15



                                                                                              12
sia la strategia migliore per favorire la tesi delle mele marce (le foto vengono dichiarate
un’eccezione, anziché costituire un frammento di una realtà più complessa), regalando
l’impunità a chi nelle immagini non compare. Insomma, ci si è indignati verso alcuni
aguzzini, ma per scovare i veri responsabili, la catena di comando che ha autorizzato e
incoraggiato le torture, le immagini si sono rivelate insufficienti: ben più eloquenti sono
stati i rapporti militari, i reportage giornalistici, le denunce delle associazioni umanitarie
che, ancora una volta attraverso la parola, sono state in grado di descrivere
minuziosamente una realtà complessa di cui le immagini possono solo restituire
brandelli isolati.




                                                                                           13
Su una parete della nostra scuola c’è scritto
                                                                 grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei
                                                               giovani americani migliori. “Me ne importa, mi
                                                                   sta a cuore” E’ il contrario esatto del motto
                                                                                       fascista “Me ne frego”.9




     1. Indignarsi


     1.1. Una definizione


     Si potrebbe definire l’indignazione come un moto dello stomaco. Come la collera, è
un sentimento violento, che infiamma il ventre. Come il disgusto, essa mette in
subbuglio lo stomaco. La reazione che ci coglie nell’assistere all’altrui sventura è
qualcosa che “mette lo stomaco sottosopra”10, espressione simile a quella usata da
Angenot, che descrive il discorso di collera come qualcosa di profondamente radicato
nel corpo, “un discorso che esprime una reazione viscerale”, che è “strappato al
ventre”11. E’ dunque un’emozione radicata in profondità, che ci mette in subbuglio e
alla cui spinta non ci si può sottrarre: siamo costretti ad agire nei confronti
dell’ingiustizia di cui siamo spettatori.
        Si possono sviluppare innanzitutto alcune considerazioni accostando due
definizioni tratte dal vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli:


       Indignazione, s.f., Risoluta ribellione a quanto offende la dignità propria o
     altrui [Dal lat. indignatio –onis, der. di indignari ‘indignare’].


       Indignare, v.tr., muovere a sdegno, suscitare indignazione o vivo
     risentimento: mi indigna la sua presunzione • Come medio intr., reagire con un
     atteggiamento di protesta e condanna risoluta: a quella proposta si indignò; arc.
     Anche sempl. intr.: di questa azione del gonfaloniere indegnarono tanto i nuovi
     governatori (Segneri). [Dal lat. Indignari, der. di indignus ‘indegno’].




9
  Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici
10
   A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 2001, pag. 205
11
   in L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, Raffaello Cortina, Milano 2000, pag. 102



                                                                                                            14
In entrambe le definizioni ricorrono alcune caratteristiche cruciali nel definire la
natura di questa passione. In primo luogo: da quale evento sorge? Se la rabbia è
scatenata in genere da un’offesa che ci colpisce direttamente e personalmente,
l’indignazione, nella definizione data, può invece sorgere di fronte a una condizione di
ingiustizia che non ci riguarda direttamente, ma di fronte alla quale non è neppure
possibile rimanere indifferenti. Pur non essendo ferito nella propria viva carne,
l’indignato avverte la sofferenza dell’altro come un’offesa che lo riguarda comunque in
una misura tale da generare una reazione spontanea contro ciò che ne è la causa. Ecco
dunque    un    secondo    tratto   caratteristico   dell’indignazione:   essa   comporta
necessariamente un’azione, nella forma di una “risoluta ribellione”, di “un
atteggiamento di protesta e condanna risoluta”. Ben lungi dall’essere un’emozione
statica, che si adagi immobile nell’interiorità, essa si traduce immediatamente in azione,
in attività volta al cambiamento di una situazione ormai inaccettabile. L’indignato,
come vedremo più avanti, anziché tacere, prende la parola e si scaglia contro l’autore
dell’offesa. La condanna dell’ingiustizia è “risoluta”. Questo termine ricorre in
entrambe le definizioni prese in esame e il motivo dovrebbe apparire chiaro alla luce di
quanto detto in precedenza: esiste un senso del giusto che ci spinge a considerare il torto
fatto ad un nostro simile come un torto fatto a noi stessi, in quanto appartenenti alla
famiglia umana. Per dirla con le parole di Rousseau, esiste una “innata ripugnanza a
veder soffrire una creatura umana”. Non è possibile scendere a compromessi: si possono
forse usare parole accomodanti per condannare atti di violenza o sadismo, uccisioni,
stupri o torture senza rischiare di porsi nella stessa posizione dei carnefici? La lesione
della dignità di un altro essere umano deve essere condannata in modo risoluto. Ad
esempio, la fermezza delle dichiarazioni contro la guerra in ogni epoca non è dovuta –
come spesso si accusa – all’estremismo ideologico di chi le pronuncia, ma alla
consapevolezza che esistono valori dinanzi a cui non si può voltare il capo altrove e
ingiustizie rispetto alle quali ci si può solo opporre con la massima determinazione.
Anche perché tacere può portarci ad essere complici di queste stesse ingiustizie.
   L’indignazione si delinea dunque come passione che sorge nell’assistere ad un
evento inaccettabile, indegno, ingiusto, che colpisce non noi stessi ma un nostro simile.
Essa si traduce immediatamente in un discorso pubblico, che “imbriglia” l’energia della
rabbia e la trasforma in condanna, parola agente che richiede con determinazione che




                                                                                        15
l’atto di ingiustizia cessi. Queste peculiarità e in particolare le modalità del suo tradursi
in azione saranno rese evidenti nel confrontare tale passione con altre due comuni
reazioni alla sofferenza di un nostro simile: la compassione e la pietà. Esse, pur essendo
state per lungo tempo assimilate all’indignazione, e ancora oggi di frequente confuse
con essa, presentano tuttavia difformità cruciali per quanto riguarda il rapporto che
istituiscono con la vittima dell’ingiustizia e per le differenti reazioni che scatenano nello
spettatore dell’altrui sofferenza.


     1.2. Compassione, pietà, indignazione


     La compassione, la pietà e l’indignazione appartengono alla medesima categoria di
passioni, quelle che Shott definisce “emozioni empatetiche”12. La caratteristica che
definisce questo genere di emozioni è che esse “derivano dal mettersi mentalmente nei
panni dell’altro, e dallo sperimentare quelli che potrebbero essere i suoi sentimenti in
quella particolare situazione”13. Sono empatetiche, dunque, dal momento che mettono in
contatto emotivo due individui separati. Si tratta insomma di “emozioni strutturate sul
ruolo”, in base alle quali l’individuo è spinto a comportarsi altruisticamente per far
cessare la sensazione di dolore ed oppressione che gli viene provocata
dall’immedesimarsi nelle sofferenze dell’altro. Vi sono forti analogie, ma altrettanto
fondamentali differenze, con il rapporto che Smith, nella sua Teoria dei sentimenti
morali, individua tra uno spettatore e la vittima di una sofferenza, rapporto che è
mediato proprio dalla capacità di calarsi nei panni altrui attraverso l’immaginazione. La
differenza cruciale consiste nel fatto che Smith predilige l’instaurarsi di un rapporto di
simpatia, piuttosto che di empatia, tra spettatore e vittima. Se empatia significa
coincidere completamente con l’altrui dolore, la simpatia implica invece un distacco: lo
spettatore morale di Smith è distante dalle sofferenze a cui assiste, non le subisce su di
sé. Di fronte ad esse è dunque imparziale, perché non coinvolto. Inizia ad agire partendo
da una posizione di disimpegno, ed è proprio in questa distanza che si manifesta la sua
grandezza morale, che ne fa appunto uno spettatore morale, poiché egli prende parte a


12
   S. Shott, Emotion and Social Life: a Simbolic Interactionist Analysis, in American Journal of Sociology
85, 1979
13
   P. A. Thoits, La sociologia delle emozioni, in G. Turnaturi (a cura di), La sociologia delle emozioni,
Anabasi, Milano 1995, pag. 41



                                                                                                       16
sofferenze che non lo coinvolgono direttamente. Potrebbe disinteressarsene, ma non lo
fa. Anzi, si immedesima egli stesso nelle sofferenze a cui assiste, ricorrendo non
all’empatia, bensì alla simpatia, cioè alla capacità di immaginare lo stato d’animo
dell’altro, cioè immaginarsi nella stessa situazione, e solidarizzare con le pene altrui.
     Smith non sembra però tracciare una distinzione netta tra compassione e pietà, e
tanto meno definire distintamente la reazione di indignazione. Come vedremo, invece,
queste tre passioni costituiscono stati differenti del rapporto che lega lo spettatore alla
vittima di un’ingiustizia, dando vita a manifestazioni significativamente differenti sia
sotto il profilo della capacità di partecipare al dolore altrui, sia per quanto riguarda le
modalità di reazione all’ingiustizia a cui si assiste. Si può delineare una sorta di
percorso che si sviluppa attraverso tre tappe, coincidenti con i tre stati d’animo, in cui
ciascuna passione si presenta come una sorta di evoluzione di quella che la precede
(senza che il termine “evoluzione” sia inteso nel senso di un’attribuzione di maggior
valore ai sentimenti che occupano i posti più inoltrati lungo il percorso).
     Nel secondo capitolo di Sulla Rivoluzione, Hannah Arendt distingue le peculiarità
del sentimento di compassione, differenziandolo nello specifico dalla pietà. In
particolare, nel suo scritto Arendt mette in luce due elementi basilari per la nostra
definizione di indignazione: innanzitutto, il ruolo decisivo svolto dal guardare le
sofferenze altrui. Per Arendt “l’oscurità, e non il bisogno, è la maledizione del
povero”14. Il povero “si sente fuori dagli sguardi degli altri, brancolante nel buio.
L’umanità non si accorge neppure della sua esistenza. Egli vaga a casaccio e passa
inosservato. In mezzo a una folla, in chiesa, al mercato (…) Egli è del tutto nell’ombra,
come se fosse in una soffitta o in una cella. Non è biasimato, criticato, censurato:
semplicemente nessuno lo vede”15, ed è infatti l’atto di essere spettatori del dolore a
spingere gli uomini alla compassione. Arendt mette in relazione lo spettacolo della
povertà con le grandi rivoluzioni sociali degli ultimi tre secoli (ad esclusione di quella
americana): “distogliere gli occhi dalla miseria e dall’infelicità della gran massa
dell’umanità non era possibile nella Parigi del diciottesimo secolo o nella Londra del
diciannovesimo”16 e proprio nel momento in cui tale miseria esce dall’oscurità gli


14
   H. Arendt, Sulla Rivoluzione, Edizioni di comunità, Torino 1999, pag. 72
15
   J. Adams, Discourses on Davila, in Works, Boston 1851, vol. VI, pagg. 239-40, cit. in H. Arendt, op.
cit., pag. 71
16
   Ibidem, pag. 76



                                                                                                    17
uomini diventano spettatori ed iniziano a chiedersi come cambiare uno stato di cose
insopportabile. Questo è il secondo elemento cruciale della riflessione di Arendt, la
forza vitale che le passioni immettono nell’agire pubblico: la compassione divenne
spinta motrice delle rivoluzioni17. Ciò che contava era fondamentalmente “la capacità di
immergersi nelle sofferenze degli altri”18, piuttosto che l’azione concreta, l’atto di bontà
nei confronti del sofferente. Appare dunque una prima caratteristica della compassione
che la distingue dalla pietà e dall’indignazione.
     Compassione – che deriva dal latino compatior, il cui significato è soffrire assieme,
prendere parte alla sofferenza altrui – viene definita da Arendt come “l’esser colpiti
dalle sofferenze di qualcun altro come se fossero contagiose”19. Ciò che la
contraddistingue è il suo indirizzarsi al singolare, poiché essa “non può estendersi al di
là delle sofferenze di una singola persona e restare ugualmente ciò che si presume sia,
un patire insieme”20. Essa infatti si concentra su singoli casi di sofferenza,
prendendosene cura, ma senza sviluppare capacità di generalizzazione. E’ nella sua
natura rivolgersi al particolare, poiché essa “non ha alcuna nozione del generale né
alcuna capacità di generalizzazione”21. La compassione fa appassionare al dolore di una
persona, ma si ferma a quel caso – o ad una serie di casi isolati – senza considerarlo
come sintomo di un fenomeno più esteso. Lo sguardo compassionevole vede la miseria
del povero e ne soffre, ma non è in grado di comprendere la miseria come fenomeno
diffuso, né tanto meno le sue cause.
     Limite della compassione è il suo non essere un’emozione cosciente, ma vissuta
come stato d’animo momentaneo. Come tale, essa si rivolge direttamente verso il
sofferente, senza subire un’ulteriore elaborazione che le consenta di costruire un
discorso sull’ingiustizia. L’uomo mosso da compassione guarda solo la sofferenza
davanti ai propri occhi e non si interessa a ciò che il proprio animo sta provando di
fronte a tale sofferenza. La compassione dunque, non prende coscienza di sé, né si
dimostra in grado di creare una teoria più generale della sofferenza, ed è per questa


17
    “Per Robespierre era ovvio che l’unica forza che poteva e doveva unificare le diverse classi della
società per farne una sola nazione era la compassione di quelli che non soffrivano per quelli che erano
malheureux, delle classi alte per il basso popolo”, ibidem, pag. 84
18
   Ibidem, pag. 85
19
   Ibidem, pag. 90
20
   Ibidem
21
   Ibidem



                                                                                                    18
ragione che essa, a differenza della pietà, “non è loquace”22. Ciò non significa che essa
sia completamente silenziosa, ma piuttosto che il suo linguaggio “è fatto di gesti e di
espressioni del corpo piuttosto che di parole”23, non produce un discorso sulla
sofferenza, “parla solo nella misura in cui deve rispondere direttamente ai suoni e ai
gesti, ossia alle pure e semplici espressioni con cui la sofferenza diviene udibile e
visibile nel mondo”24. In altre parole, essa abolisce l’intervallo che normalmente esiste
nei rapporti umani, abolisce la distanza, ovvero il “tra di noi”. Distanza che è, nelle
parole di Arendt, “quello spazio terreno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari
politici e si colloca l’intero campo delle vicende umane”25. “La compassione consente
una comprensione diretta dell’identità dell’altro (ovvero indipendente dalle sue qualità
mondane), ma è incapace di porre tra sé e l’altro una distanza in cui possa trovare spazio
il mondo. Essa vive, cioè, di assenza di distanza e, non a caso, è muta, opaca, aliena alla
luminosità dello spazio pubblico”26. Ma è nello spazio di tale distanza che prende forma
l’azione politica, il cui strumento è la parola, parola di condanna, di denuncia, come
vedremo, volta a produrre dei mutamenti. Proprio perciò la compassione appare muta,
perché, sprovvista della parola, essa non produce reali conseguenze e risultati sul piano
politico, ovvero non è in grado di attuare quel cambiamento che porterebbe alla fine
della condizione di sofferenza a cui si assiste. In questo molto diversa dall’indignazione,
la compassione di solito non si lancia in un’azione volta a modificare le condizioni
presenti e far terminare le sofferenze a cui si rivolge, “ma se lo fa, respinge i logori e
noiosi processi della persuasione, del negoziato e del compromesso, che sono i processi
della legge e della politica, e presta la sua voce agli stessi uomini che soffrono e che
devono pretendere un’azione veloce e diretta, ossia l’azione per mezzo della
violenza”27.
     La pietà, invece, supera i limiti della compassione come pura passione, grazie alla
capacità di introspezione. La compassione viene scoperta e intesa come un sentimento,
e questo sentimento è la pietà. Essa concilia la passione per i singoli casi di sofferenza
con la capacità di ricercare manifestazioni più generali della sofferenza. “La pietà,

22
   L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, op. cit., pag. 8
23
   H. Arendt, Sulla Rivoluzione, op. cit., pag. 91
24
   Ibidem, pag. 92
25
   Ibidem, pag. 91
26
   P. Costa, Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione, in La società degli individui,
n. 18, anno VI, 2003/3
27
   H. Arendt, Sulla Rivoluzione, op. cit., pag. 92



                                                                                                       19
poiché non è ferita nella propria carne e mantiene la sua distanza sentimentale, può
riuscire dove la compassione fallirà sempre: può protendersi verso la moltitudine e
quindi, come la solidarietà, arrivare alla massa degli uomini”28. Se individuare le
sofferenze di vittime singolari è necessario perché sorga la compassione, la produzione
di una generalizzazione si rivela necessaria per far fronte alla distanza tra lo spettatore e
il sofferente29. L’individuo mosso da pietà non si lascia andare ad uno stato d’animo del
momento, ma elabora la passione attraverso l’introspezione, prendendone coscienza
come di un’emozione e divenendo in grado di trasmetterla come una teoria più generale
sull’ingiustizia. Tuttavia, come scrive ancora Costa, queste caratteristiche costituiscono
anche un limite della pietà: “quando fa il suo ingresso nella sfera pubblica la
compassione subisce una trasformazione essenziale. Essa diventa sentimento di pietà e
perde la capacità di distinguere l’altro che si trova di fronte nella sua individualità.
Spersonalizzando i soggetti che compatisce, la pietà finisce in effetti per accorparli in un
aggregato privo di volto”30.
     C’è un altro nodo cruciale con cui tale emozione si deve necessariamente
confrontare, quello dell’azione diretta al mutamento delle condizioni di ingiustizia. Si
tratta di una conseguenza irrinunciabile, poiché, come sottolinea Susan Sontag, “la
compassione è un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti
inaridisce”31. La pietà deve dunque accompagnarsi all’orientamento all’azione,
necessità legata al bisogno di porre fine alla sofferenza a cui si sta assistendo, altrimenti
si ricadrebbe nel dominio di una compassione sterile, in cui va perduta una teoria della
giustizia in grado di agire contro condizioni che ledono la dignità di altri esseri umani.
     L’azione in favore del sofferente può però incorrere nel limite drammatico
dell’incapacità di agire, generata dalla distanza fisica tra lo spettatore e l’oggetto della
sua pietà. La separazione può rendere arduo, se non addirittura impossibile, muoversi
concretamente contro l’ingiustizia cui la vittima è sottoposta. La distanza fisica, le
barriere politiche, economiche o giuridiche che spesso si interpongono tra spettatore e
28
   Ibidem, pag. 94
29
   Diverse associazioni umanitarie fanno un uso accorto di singole storie particolarmente adatte ad essere
testimoni di una condizione generale di sofferenza, senza peraltro rinunciare a descrivere il contesto in cui
esse avvengono: a titolo d’esempio, si pensi alle storie a lieto fine del notiziario periodico italiano di
Amnesty International, o a Soran, ragazzino kurdo mutilato da una mina antipersona, la cui storia viene
narrata con passione nei filmati sull’attività di Emergency in Iraq Soran non aver paura (1998) e
L’arcobaleno e il deserto (2003).
30
   P. Costa, Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione, op. cit., pag. 133
31
   S. Sontag, Di fronte al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, pag.84



                                                                                                         20
vittima, finiscono per generare una sensazione di impotenza, tanto più nel momento in
cui la sofferenza dell’altro si reitera sotto i nostri occhi senza che sia possibile impedire
in qualche modo che ciò avvenga. Lo stesso Smith non manca di evidenziare come la
sensazione di non poter fare nulla di concreto per soddisfare il proprio risentimento per
un’ingiustizia possa divenire un vero e proprio tormento32. Il rischio, piuttosto elevato, è
che la sensazione di impotenza faccia cadere in uno stato di scoramento e rassegnazione
che mortifichi qualunque tentativo d’azione, un passo indietro verso l’isterilimento della
compassione descritto da Sontag. Questo passaggio cruciale è esplicato lucidamente
dall’interrogativo di Boltanski: “di fronte allo spettacolo di un infelice che sta soffrendo
lontano, cosa può fare lo spettatore, condannato – almeno nell’immediato – alla
inazione, ma moralmente ben disposto?”33. La risposta è una sola, ed è netta: può
indignarsi.
     I sentimenti di pietà e indignazione sono dunque concatenati e, d’altro canto, non ci
sarebbe alcuna ragione di indignarsi nell’assistere ad un’ingiustizia se si fosse
completamente sprovvisti di pietà. Come si potrebbe risentirsi del torto perpetrato alla
dignità di un altro essere umano senza possedere la capacità di simpatizzare con il suo
dolore? Provare pietà è dunque indispensabile, ma ciò che marca la differenza tra le due
emozioni è il fatto che l’indignazione è una pietà che “non rimane disarmata e, di
conseguenza, impotente, ma si dota delle armi della collera”34. Essa si esprime, si
esterna, in quanto reazione viscerale, in modo risoluto. Ma l’energia scatenata è
sottoposta suo malgrado al limite della distanza fisica tra l’indignato e il persecutore
verso cui è indirizzata la collera: dunque, nell’incapacità di esprimersi in azione fisica in
grado di far cessare l’ingiustizia, essa si muta in un attacco verbale. La violenza
sublima, divenendo parola, in forma di condanna e protesta. La parola – parola agente –
è arma dell’indignazione, strumento di condanna delle ingiustizie e mezzo per
richiedere risolutamente un cambiamento, premendo con tutte le energie per ottenerlo. Il
discorso dell’indignato assume la forma dell’accusa rivolta, ovviamente, non all’infelice
(per sua natura già sottoposto ad un’offesa), ma al suo aguzzino. Ci si ribella al posto di
chi non può ribellarsi, si protesta al posto di chi non può protestare. Perché la sofferenza
che l’altro sta patendo ci coinvolge senza scampo: basata sulla simpatia, l’indignazione

32
   Cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, op. cit. pag. 268
33
   L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, op. cit. pag. 91
34
   Ibidem, pag. 91



                                                                                          21
è dunque un’emozione che spinge a prendersi attivamente cura dell’altro, a farsi carico
della sua condizione di sofferenza e a reagire con decisione a qualunque offesa gli
venga rivolta. E’ ben più che il semplice interesse per le condizioni dei deboli, degli
oppressi, dei paria, dei perdenti. Indignarsi significa scendere in campo al loro fianco,
considerando l’ingiustizia che essi subiscono come una ferita inferta all’intera umanità e
di fronte alla quale girarsi dall’altra parte e proseguire oltre, fingendo che non stia
succedendo nulla, sarebbe intollerabile.


     1.3. Rabbia, disgusto, indignazione


     E’ opportuno aprire una parentesi per tracciare un’ulteriore distinzione, si spera
chiarificatrice, tra l’indignazione e altre due passioni, che potremmo definire
“viscerali”: la rabbia e il disgusto. Riferendosi all’indignazione, Boltanski delineava
come caratteristico di tale passione il fatto che essa non rimanga “disarmata”,
impotente, ma si doti delle “armi della collera”. Preliminarmente, avevamo già stabilito
una prima distinzione tra l’indignazione e la rabbia: laddove la rabbia sorge per una
causa che ci tocca in prima persona, l’indignazione è causata da qualcosa che colpisce
un altro individuo e che, tuttavia, finisce per riguardarci nel momento in cui
simpatizziamo con i suoi stati d’animo. Ma la distinzione tra la rabbia e l’indignazione
non è così netta. Mario Vegetti, nel suo saggio sull’ira (menis) omerica, elenca quattro
termini presenti nel poema per definire questo sentimento: “menis vale propriamente
‘indignazione’, ‘risentimento violento’; essa è in rapporto con cholos, la ‘collera’ aspra
ed amara (in seguito connessa al temperamento ‘bilioso’); ci sono poi menos, il ‘furore’
guerriero del campo di battaglia, e infine thymòs, l’impulso emotivo che scatena
l’azione (connesso a menos)”35.
     Sembra dunque che rabbia e indignazione siano, in qualche misura, correlate. A
titolo d’esempio, basti confrontare le definizioni relative all’indignazione e all’atto di
indignarsi che vengono date dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, edizioni
UTET:




35
  M. Vegetti, Passioni antiche: l’io collerico, in S. Vegetti-Finzi (a cura di), Storia delle passioni,
Laterza, Roma-Bari, 2000, pagg. 39-40



                                                                                                    22
Indignazione (ant. indegnazione), sf. Sentimento di vivo sdegno, di
   profondo risentimento, di violento disprezzo, di corruccio nei confronti di ciò
   che si giudica indegno, ignobile, ingiusto, sconveniente o comunque offende la
   coscienza.


       Indignare (ant. indegnare, endegnare), tr. Suscitare indignazione, muovere
   a sdegno; fare adirare. – anche assol.
       3. Intr. (anche con la particella pronom.). Provare vivo risentimento,
   accendersi di sdegno; offendersi, aversi a male, adirarsi.


   In queste definizioni, a differenza di quelle riportate in precedenza, compare un
nuovo elemento: l’indignazione viene associata all’ira. Il legame tra le due passioni
viene marcato, nello stesso dizionario, dalla definizione di ira:


       Ira, sf. Emozione violenta, e talvolta rabbiosa, che si manifesta con atti o
   parole di aggressiva, incontrollata e per lo più offensiva veemenza, di astioso
   risentimento che tende alla vendetta o alla punizione contro il fatto, la
   circostanza, il motivo che ne ha determinato l’insorgere; collera, rabbia, furore
   (e, secondo la teologia morale, è uno dei sette vizi capitali; anticamente era
   considerata una demenza parziale). (…)
       3. Sdegno, risentimento giustificato, indignazione profonda e veemente.


   Di tono simile la definizione del già citato Devoto-Oli:


       Ira s.f. 1. Moto di reazione violenta, spesso rabbiosa, e genrl. non
   riconducibile ad una giustificazione sul piano umano e razionale: avere uno
   scatto d’i.; lasciarsi trasportare dall’i.; attirare su di sé le i. di qlc.; i. feroce,
   cupa, lenta, implacabile. 2. part. Odio come motivo di acceso risentimento o
   come causa di discordia, spec. civile: Quel da Essi il fe’ far, che m’avrà in i.
   (Dante); ire di parte • Sdegno alimentato da uno zelo indomabile o da una
   funzione sacra di giustizia: l’i. dell’Alfieri. (…)




                                                                                             23
La differenza tra l’ira e la rabbia può apparire sottile, tuttavia è opportuno riportare
anche le definizioni relative a quest’ultima, tratte la prima dal dizionario UTET, la
seconda dal Devoto-Oli (e, ovviamente, non considerando il primo significato riportato,
riferito all’idrofobia):


        Rabbia, (ant. ràbia, ràia), sf. (…) 2. Figur. Stato di violento turbamento
    emotivo determinato per lo più da un risentimento subitaneo per un torto o un
    danno subito, da una grave contrarietà o da una forte delusione, che si manifesta
    spesso con alterazioni fisiche (tremito, congestione del volto) e che può indurre
    a gesti scomposti, ad atti e a parole incontrollate, a esplosioni di violenza
    verbale o fisica nei confronti di chi si ritiene la causa del danno; collera, ira,
    furore (rispetto ai quali ha una sfumatura di più bassa, cieca e quasi bestiale
    perdita del controllo e della ragione, spesso in espressioni del tipo Entrare,
    montare in rabbia, sfogare la rabbia). (…)
        – Furore di un gruppo, di una categoria di persone, di una classe sociale (e,
    in partic., del popolo) che si manifesta in tumulti, in turbolenze, in azioni
    collettive di violenza. (…)
        3. Ira sorda e contenuta come stato permanente dell’animo, che nasce per lo
    più da sconfitte subite, da condizioni di oppressione e dal conseguente senso
    della propria impotenza , da dissenso ideologico e politico, da grave disagio
    esistenziale. (…)
        – Sentimento collettivo che proviene da condizioni di oppressione politica e
    sociale, dal desiderio di rivalsa contro gli oppressori. (…)


        Rabbia s.f. (…) 2. Rel. a persone, irritazione violenta e incontrollata,
    oppure chiusa e impotente, di chi vede irrealizzati o irrealizzabili i propri
    desideri, o insaziabili le proprie voglie e passioni; anche, reazione di stizza o di
    dispetto che ispira l’atteggiamento, momentaneo o abituale, di un’altra persona,
    o la condizione altrui considerata migliore e più desiderabile della propria.


    Queste definizioni aiutano già da subito a chiarire la differenza tra la rabbia e
l’indignazione e, quindi, a definire per contrasto l’indignazione stessa. Innanzitutto, a




                                                                                           24
differenza della rabbia, l’indignazione non è scatenata da un torto subito in prima
persona, come già ribadito: è l’ingiustizia a cui è sottoposto un nostro simile a
indignarci. Se indignazione e rabbia possono essere accostate è perché la condizione del
nostro simile ci colpisce come se fosse la nostra: in qualche modo, dunque,
l’indignazione è una sorta di “rabbia altruistica”.
       Tuttavia, è nelle loro manifestazioni fisiche che rabbia e indignazione divergono
radicalmente. Quest’ultima non si esprime “con alterazioni fisiche” o attraverso “gesti
scomposti” o “atti e parole incontrollate”, né tanto meno in “tumulti” e azioni violente,
ma, lo ripetiamo, attraverso la parola. L’indignazione, è bene precisarlo, non spinge alla
violenza, né può tradursi in azioni violente. La distanza tra l’indignato e la vittima
impedisce l’azione violenta nei confronti del persecutore: in questo spazio la furia
sublima e si dispiega invece l’azione politica, basata sulla parola. La violenza della
rabbia costituisce semmai l’elemento più istintivo dell’indignarsi, la spinta che costringe
ad agire: “sembra che la rabbia ci carichi di energia, di certezze, di decisione, di
coraggio – stiamo male, ma crediamo di sapere cosa ci farebbe star meglio. (…)
Veniamo presi da un vortice che ci sbatte, che ci costringe ad agire, una specie di
possessione che ci fa perdere la vista, da lontano ma anche da vicino”36.
       Dalle definizioni esaminate, sembra che il limite della rabbia consista nella
mancanza di una via alternativa tra violenza incontrollata e impotente chiusura.
L’indignazione supera questo limite esprimendosi nell’atto di denuncia. In esso si
risolve il dilemma tra due posizioni inconciliabili, quella della violenza forsennata e
quella della chiusura impotente: la spinta ad agire diviene il motore dell’azione verbale,
che è denuncia, condanna, mai violenza verbale fine a se stessa, attraverso cui la
passione si esterna. Dell’ira e della rabbia, in sostanza, si può dire che l’indignazione
conservi l’impulso all’azione, ma tale impulso è convogliato in altre direzioni. La rabbia
è un moto istintivo che spinge all’aggressione fisica o verbale, non sempre verso il
giusto obiettivo, mentre l’indignazione è un sentimento che, se sorge come istintiva
ripugnanza verso qualcosa che offende il nostro senso di dignità, si traduce però in
riflessione, ricerca di responsabilità e denuncia dei responsabili.
       Giacché abbiamo detto che il torto perpetrato nei confronti di un altro essere umano
può ripugnarci, il secondo sentimento su cui è necessario soffermarsi è il disgusto, a cui

36
     V. D’Urso, Arrabbiarsi, Il Mulino, Bologna, 2001, pag. 16



                                                                                        25
già nelle primissime righe di questo capitolo abbiamo fatto riferimento, definendo
l’indignazione come un moto dello stomaco, idea che rispecchia le parole di Adam
Smith (qualcosa che “mette lo stomaco sottosopra”) e che ritroveremo più avanti: Pietro
Ingrao, per esempio, descrive la propria indignazione di fronte alla sofferenza dei
bambini iracheni come una “nausea psichica”37. Tra l’altro anche la rabbia si può
considerare un moto dello stomaco (probabilmente più dell’indignazione): abbiamo già
riportato la definizione del “discorso di collera” di Angenot, inteso come “un discorso
che esprime una reazione viscerale”. Tra le reazioni fisiologiche che D’Urso associa alla
rabbia – aumento del battito cardiaco, tensione muscolare, emicrania, balbettio e altre –
vengono rilevati anche “contrazioni e bruciori allo stomaco”38. Va notato, en passant,
che anche altre emozioni trovano la loro espressione fisica (inappetenza, nausea,
gastrite, una morsa indefinibile) in questa zona del corpo. Se l’indignazione costituisce,
s’è detto, una rabbia più “fredda”, distaccata, tuttavia essa nasce da una reazione di
sdegno viscerale nei confronti di qualcosa che offende il nostro senso della dignità. In
un certo senso, dunque, l’indignato è, in partenza, disgustato da ciò di cui viene a
conoscenza, perché lo ritiene intollerabile. Diamo un’occhiata alle definizioni del
dizionario Devoto-Oli:


           Disgusto s.m. Acuto e persistente senso di ostilità fisica o morale
       proveniente da sazietà, o da malumore o risentimento più o meno motivati:
       provare d. delle sigarette; il tuo cinismo mi ispira d. [Da dis-I e gusto].


           Disgustare v. tr. 1. Provocare nausea, avversione, ripugnanza: un simile
       comportamento mi disgusta; è di un egoismo, di una grettezza che disgustano •
       Di cibo o bevanda, essere intollerabile: quel pesce mi disgusta. 2. medio intr.
       Passare ad un acuto e persistente senso di fastidio nei confronti di qlc. o di qlcs.:
       mi sono disgustato col mio collaboratore (…)


       E quindi a quelle del solito dizionario UTET:




37
     P. Ingrao, La politica, che passione, La Repubblica, 12 Luglio 2005
38
     V. D’Urso, Arrabbiarsi, op. cit., pag. 67



                                                                                               26
Disgusto, sm. Sensazione sgradevole al gusto (o agli altri sensi); ripugnanza
   per cibi, bevande; nausea. (…)
       2. Figur. Fastidio profondo (che nasce da stanchezza o da ripugnanza fisica
   o morale); viva repulsione dell’animo, insofferenza (per persone, cose, azioni,
   idee, ecc.); turbamento del senso estetico, sgradevole sensazione di bruttezza;
   senso di sazietà e nausea verso ogni cosa e l’intera vita, dalla quale si ostenta di
   non desiderare più nulla e di non attendersi nessun piacere. – Anche in senso
   concreto: ciò che provoca ripugnanza, sazietà.


       Disgustare, tr. Suscitare disgusto; offendere il gusto, riuscire disgustoso (un
   cibo, una bevanda). (…)
       2. Figur. Provocare impressioni sgradevoli moleste; dispiacere vivamente;
   dare un senso di fastidio, di insofferenza, di ripugnanza fisica o morale;
   suscitare stanchezza nell’animo, nausea profonda per un oggetto, per
   un’occupazione, per un’attività; alienarsi l’animo o la simpatia di qualcuno con
   atti o parole che riescono sgradite o male accette; offendere col proprio
   comportamento o con i propri discorsi la suscettibilità altrui. – Anche assol. (…)


    Alla luce delle definizioni riportate, possiamo collocare il disgusto, inteso come
“nausea psichica”, reazione viscerale a qualcosa di moralmente indecente, come
componente dell’indignazione. La sofferenza a cui un persecutore sottopone un nostro
simile ci attanaglia lo stomaco, ci fa inorridire. Ma l’indignato supera questo stato
d’animo, legato al corpo e alle manifestazioni corporee, elaborando tale disgusto in
modo cosciente. Rabbia, disgusto e indignazione sono passioni estremamente diverse,
soprattutto per i modi in cui si esprimono: le accomuna, se vogliamo, quella scintilla
iniziale che scaturisce da un senso di ingiustizia e indecenza e finisce per mettere in
subbuglio le viscere, spingendo a reagire risolutamente per porvi rimedio.


   1.4. La passione come motivazione ad agire


   Consideriamo le parole con cui Howard Zinn, storico e attivista americano, descrive
sinteticamente ed efficacemente le reazioni di conoscenti ed amici, contrariati dai




                                                                                          27
risultati delle elezioni che, nel Novembre 2004, hanno confermato George W. Bush alla
Casa Bianca. “Nei giorni che sono seguiti all’elezione del presidente degli Stati Uniti,
sembrava che tutti i miei amici fossero depressi e arrabbiati, frustrati e indignati o
semplicemente disgustati. Alcuni vicini, con i quali mi ero sempre limitato a scambiare
niente più di un semplice saluto, mi fermavano per strada e mi intrattenevano in
discussioni appassionate.”39 Ciò che Zinn condensa abilmente in queste poche righe è il
processo attraverso cui le persone da lui citate, inizialmente assalite da un moto di
disgusto, rabbia, indignazione rispetto ad un avvenimento che, evidentemente,
avvertono come ingiusto, sono spinte ad esternare le passioni che le pervadono. Lo
fanno per mezzo della parola, attraverso cui danno voce, letteralmente, ad
un’indignazione che esige di manifestarsi. E’ significativo che semplici conoscenti,
vicini di casa con cui in genere si scambiano appena i saluti imposti dalla routine, da un
giorno all’altro avvertano la necessità di discutere a lungo con qualcuno che condivida
le loro passioni. In questo articolo, significativamente intitolato Harness that anger
(imbrigliate quella rabbia), Zinn insiste più volte sull’importanza che le passioni
individuali possono rivestire nel far nascere un movimento di protesta: “Nella rabbia,
nel disincanto, nella frustrazione dolorosa c’è un’enorme energia, e se questa energia
viene messa in movimento può ridare una grande forza al movimento contro la guerra
(…)”40. La rabbia, dunque, come la frustrazione, il disgusto, l’indignazione, possono
divenire il motore di una mobilitazione di massa contro qualcosa che è percepito come
profondamente iniquo, immorale, ingiusto. Zinn descrive queste passioni come una
forza dirompente che non può essere trattenuta e pertanto rende l’inerzia, il silenzio, la
passività insopportabili, e spinge ad agire in prima persona, utilizzando la parola per
ribellarsi ad uno stato di cose non più tollerabile. Queste emozioni possono generare
grandi mobilitazioni se, anziché disperdersi in espressioni individuali, divengono il
collante dell’azione collettiva: la passione, allora, non è solo una forza che dirompe
all’esterno, ma anche una forza che tiene insieme un gruppo di persone. In altre parole,
così come l’indignazione muove il singolo individuo, così quando accomuna più
persone, rivela una natura rivoluzionaria e creativa, facendo nascere gruppi e


39
   H. Zinn, Non disperdiamo la nostra rabbia, in Il fantasma del Vietnam e altri scritti sulla guerra,
Datanews Editrice, Roma 2005 (titolo originale: Harness that anger, tratto da www.theprogressive.org,
gennaio 2005), pag. 19
40
   Ibidem, pag. 21



                                                                                                   28
mantenendoli coesi, generando azioni che mirano ad ottenere un cambiamento in uno
stato di cose in cui si avverte l’urgenza di un problema.
     Come illustra Sergio Moravia nel saggio Esistenza e passione41, le passioni sorgono
da una situazione di mancanza o di bisogno, alla quale si reagisce ricercando
un’alternativa accettabile allo stato di cose inaccettabile. La passione “è sempre
annodata con un Umwelt circostante, diversa, se non addirittura ostile”42 e, ancor più
precisamente, essa “si configura come la risultante di una vera e propria relazione
dialettica tra un soggetto e il suo contesto”43. La situazione di mancanza o di bisogno,
che costituisce l’Umwelt, l’ambiente in cui la passione prende vita e si sviluppa, spinge
l’individuo non solo a mettere in discussione, vivacemente, spesso violentemente, le
condizioni percepite come ingiuste, ma anche a credere in un’alternativa e a manifestare
risolutamente la propria convinzione nella possibilità di realizzare l’alternativa stessa.
“Come la passione è essenzialmente una forte credenza, così l’appassionato è per più
versi un tenace credente. Crede in un altro, in un oltre, in un meglio.”44 Moravia
descrive, efficacemente quanto l’aneddoto di Zinn, le forme che la passione assume nel
proprio svilupparsi, poiché essa assai di rado è un fenomeno improvviso, un coup de
foudre, ma è piuttosto una storia, dotata di un’evoluzione per fasi, svolte spesso
improvvise, brusche sterzate, colpi di scena.
     Nelle prime fasi, la realtà altra (la realtà a cui si ambisce con tanta forza) è talmente
esaltata dalla passione da manifestarsi come una presenza invasiva, quasi fosse talmente
a portata di mano da poter essere colta immediatamente e con un rapido movimento.
Dominato interamente dalla passione per un’alterità che sembra ad un passo dall’essere
realizzata, l’appassionato ne viene totalmente posseduto, come in preda a una sorta di
insistente nostalgia. A queste fasi, in cui la realtà altra domina completamente la vita del
soggetto, ne seguono altre in cui si manifesta gradualmente una sorta di allontanamento
tra il soggetto e l’oggetto della sua passionalità, che conduce non ad una separazione,
quanto al raggiungimento di un maggior grado di autonomia, che consente una
differente capacità di vivere la propria scelta emotiva. Il soggetto appassionato
acquisisce una rinnovata determinazione a seguire la propria scelta emotiva in modo

41
   S. Moravia, Esistenza e Passione, in S. Vegetti Finzi (a cura di) Storia delle passioni, Laterza, Roma-
Bari 2000
42
   Ibidem, pag. 25
43
   Ibidem, pag. 25
44
   Ibidem, pag. 17



                                                                                                         29
libero e personale, ed è a questo punto che la passione inizia ad agire sulla realtà,
mirando a decostruirla e ricostruirla, ovvero a plasmarla, per darle la forma di quella
realtà altra a cui l’appassionato ha rivolto tanto insistentemente il proprio pensiero.
Essa, operando attivamente sul presente, giunge ad essere “iniziativa anticonformista e
creativa, decostruzione di miti e idées reçues, trasgressione di vincoli e regole,
costituzione di condizioni o sentimenti o stati alternativi”45.
       Ecco dunque manifestarsi il suo carattere doppio, convivenza di distruzione e
creazione: da un lato, la realtà esistente non può essere accettata, deve essere fatta a
pezzi e cambiata radicalmente; dall’altro, la passione si fa energia che crea e anima una
nuova concezione della realtà, o una nuova realtà tout court. Essere appassionati
significa dunque credere, o aver fede, nella propria passione e trarre forza da essa.
Nell’individuo appassionato emergono, giorno dopo giorno, una tenacia, una forza
d’animo, una determinazione a perseguire i propri obiettivi che prima gli erano ignote.
La passione genera una svolta, diviene scelta radicale, anima la ricerca ostinata di un
mutamento.
       Da un’altra prospettiva, si può vedere la passione anche come qualcosa che coglie
l’individuo e ne domina le scelte, senza che esso possa opporsi. Il soggetto si trova
catturato dalla passione, ma è una cattura consenziente: come un Appello (questo è il
termine usato da Moravia), la passione risveglia pulsioni in attesa di essere riportate in
vita e ben disposte ad esserlo. Al risuonare dell’Appello, si manifesta la realtà altra a cui
si dirige il proprio desiderio e inizia la ricerca della sua realizzazione. Così come i vicini
di casa di Zinn – solitamente riservati, ma da un giorno all’altro divenuti curiosamente
loquaci – così “il borghese piccolo piccolo esce dai suoi orizzonti solitamente privi di
passione, slanciandosi in un’impresa spesso più grande di lui”46. Da un giorno all’altro,
persone fino ad allora restie ad impegnarsi direttamente danno voce alle proprie
passioni, aspirando a realizzare un’alternativa ad uno stato di cose in cui persistono
percezioni di mancanza o di bisogno. Gli esempi che potrebbero essere addotti, oltre a
quello riportato da Zinn, sono pressoché infiniti nella storia e nel presente: dal
movimento operaio che chiede un mutamento nelle condizioni di lavoro all’associazione
dei consumatori che propone differenti modelli di consumo o di produzione, dalle
associazioni antirazziste che richiedono maggior tutela della dignità dei migranti ai
45
     Ibidem, pag. 18
46
     Ibidem, pag. 24



                                                                                           30
movimenti che si oppongono all’attuale modello di globalizzazione, proponendo
alternative sostenibili, ritenute maggiormente eque e giuste, fregiandosi del celebre
slogan che è anche la proposta di una realtà alternativa all’attuale: un altro mondo è
possibile. Tra i numerosi esempi, ne abbiamo scelto uno che descrive efficacemente il
percorso attraverso cui l’indignazione, trasformandosi in una passione civile – passione
che anima i singoli e li unisce – mobilita anche individui mai abituati in precedenza ad
impegnarsi in prima persona, e li introduce a modalità d’azione collettiva che
cambieranno per sempre la loro vita.


       1.5. Contro l’oblio: la strage di Bologna


       E’ possibile trovare una descrizione approfondita di come passioni che nascono da
profonde motivazioni etiche possano spingere fuori dalle mura di casa e verso la piazza
nel libro di Gabriella Turnaturi Associati per amore47, che raccoglie diverse esperienze
di mobilitazione tra la gente comune, dall’associazione dei familiari delle vittime della
strage di Bologna a quelle di Ustica, dalle madri napoletane che lottano contro la
tossicodipendenza fino alla storia del Comitato dei cittadini di Racconigi che si batté
contro la sottrazione, decisa dal Tribunale dei Minori, di Serena Cruz alla sua famiglia.
Ciò che accomuna i parenti delle vittime di stragi, le madri napoletane o i cittadini del
piccolo paese del Cuneese è l’importante mutamento introdotto nella loro vita
dall’esperienza della mobilitazione. Solitamente non abituati alla protesta, molti di loro
si arricchiranno di nuove risorse e conoscenze, scopriranno nell’esperienza della
mobilitazione per una causa collettiva nuovi valori, in parte preesistenti come collante
del gruppo, in parte creati dal gruppo stesso.
       “La richiesta di giustizia e verità noi non la consideriamo una vendetta, ma solo un
diritto civile di tutti i cittadini; la consideriamo un diritto civile indispensabile ad evitare
che l’impunità generi o faciliti il ripetersi, come già verificatosi, delle stragi. Il diritto
alla vita fa parte dei diritti dell’uomo e noi chiedendo Giustizia e Verità difendiamo
questo diritto”48, dichiara Torquato Secci, presidente dell’Associazione dei familiari
delle vittime della strage alla Stazione di Bologna e soprattutto padre di Sergio Secci, un
ragazzo di ventitrè anni, una delle 85 persone ammazzate nell’attentato. Una strage
47
     G. Turnaturi, Associati per amore, Feltrinelli, Milano 1991
48
     Ibidem, pag. 7



                                                                                             31
tuttora impunita: al processo d’appello, conclusosi il 19 Luglio 1990, tutti gli imputati
sono stati assolti. Per alcuni, solo una delle troppe stragi che hanno insanguinato gli
anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una strage su cui pesano ancora i tentativi di
mettere a tacere, insabbiare, rinunciare a interrogarsi. “Contro questa cultura dell’oblio,
fatta di precise volontà politiche, ma anche di una rimozione collettiva di fronte a tante
morti e a tante responsabilità inevase, c’è stato però chi ha opposto la memoria, la voce
del ricordo”49.
     L’Associazione dei familiari delle vittime prende forma attraverso una lenta
riflessione su quanto accaduto, una progressiva elaborazione del lutto, ma soprattutto
dall’indignazione per una serie di eventi inaccettabili, come l’assoluzione degli imputati
per la strage di Piazza Fontana, il 20 Marzo del 1981. Una sentenza che costituì
un’ulteriore violenza a chi aveva già sofferto le conseguenze di un attentato e un grido
d’allarme: bisognava agire subito per impedire che la verità sulla morte dei propri cari
venisse soffocata dalla cultura dell’oblio, un processo di rimozione che le istituzioni
sembravano incoraggiare, più che combattere. Tuttavia in questo caso il ricordo non
costituiva un fatto personale e privato, ma un diritto collettivo e un dovere civile.
Laddove le istituzioni sembravano persino ostacolare la ricerca della verità sulle stragi,
era necessario che i cittadini, beneficiari del diritto alla verità e alla giustizia, si
mettessero in azione per rivendicare ciò che spettava loro. L’Associazione dei familiari
delle vittime, dunque, nacque per rivendicare e conseguire un diritto: “cercare di
raggiungere la verità e la giustizia, che temevamo ci sarebbero state negate similmente a
quanto era accaduto per le stragi               che avevano preceduto quella di Bologna.
L’Associazione doveva ottenere ciò che si era prefissa senza far ricorso alla violenza
(…) Raggiunto lo scopo, l’Associazione, che non ricorreva per la sua formazione agli
ausili notarili si sarebbe sciolta”50.
     In poco tempo, dall’iniziativa di una cinquantina di persone si giunge ad
un’Associazione di 258 componenti. “Fra quei familiari, colpiti tutti egualmente senza
alcuna differenza di ceto e censo c’erano persone colte e politicizzate e persone senza
alcuna particolare tradizione di impegno o di mobilitazione, c’erano padri e c’erano
figli, c’erano donne e c’erano uomini. Persone lontane e diverse improvvisamente

49
  Ibidem, pag. 3
50
  Testimonianza di Anna Maria Montani, in T. Secci, Cento Milioni per testa di morto, Targa Italiana
Editore, Milano 1989, pagg. 50-51



                                                                                                       32
accomunate non solo dalla morte dei loro cari, ma dalla convinzione e dalla coscienza
che quanto era accaduto non era una disgrazia, una catastrofe naturale, ma qualcosa che
poteva essere evitato e di cui bisognava ricercare i responsabili”51. Sono i valori
condivisi a costituire il nucleo intorno a cui si addensano esperienze profondamente
differenti, ma è soprattutto la volontà che tali valori non rimangano qualità dei singoli
individui e diventino invece patrimonio della collettività, a costituire la spinta ad
associarsi. Tanto che, attorno all’Associazione dei familiari delle vittime di Bologna,
nasceranno i comitati di solidarietà di Bologna, Roma, Venezia e Terni, composti da
semplici cittadini, non coinvolti direttamente, ma intenzionati a mettersi in gioco per
impedire che calasse il silenzio su eventi che riguardavano, comunque, la collettività:
“per molti l’essere presenti, testimoniare la propria volontà di perseguire la verità non è
solo un impegno di solidarietà, ma un dovere civile. Impegno morale e impegno politico
si saldano così come si saldano emozioni e valorizzazione del proprio essere
cittadini”52. Tre anni dopo la nascita dell’Associazione bolognese, vedrà la luce
l’Unione delle Associazioni dei familiari delle vittime, con sede a Milano, che
raccoglierà al suo interno le associazioni dei familiari delle vittime di Piazza Fontana,
dell’Italicus, di Piazzale della Loggia, del rapido 904, con l’intento comune di
combattere una cultura del silenzio e dell’oblio che mette in pericolo la ricerca della
verità e la consegna alla Giustizia dei responsabili.
       L’Associazione, s’è detto, rifiuta la violenza. L’arma dei familiari delle vittime di
Bologna è la parola, strumento dell’azione politica. Chiedendo giustizia per se stessi, i
familiari chiedono giustizia per tutti: la loro azione civile alterna ricerca delle
responsabilità e denuncia pubblica, assieme ad atti strettamente politici, come la
proposta di legge di iniziativa popolare per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di
strage e terrorismo, presentata nel 1984 e approvata solo sei anni dopo. Anche in questo
caso, il diritto rivendicato da alcuni, diventa una conquista per la collettività, un passo
avanti per la Democrazia. La parola serve ai familiari per far sentire la propria presenza
e far pesare le proprie opinioni, per informare i cittadini e per fare pressione sulle
istituzioni affinché vengano riconosciute le proprie richieste, per mettere in moto un
circolo virtuoso in cui i cittadini prendano atto della possibilità di influire sulle scelte
dei governanti.
51
     G. Turnaturi, Associati per amore, op. cit., pagg. 2-3
52
     Ibidem, pag. 5



                                                                                          33
L’esperienza dell’associazione cambia profondamente gli stessi familiari delle
vittime, passati in molti casi dalla passività di fronte alle istituzioni alla ricerca attiva di
un diritto negato. Hanno appreso come un dolore privato fosse parte di un’ingiustizia
che riguardava la collettività, giungendo a ridefinire se stessi, non solo in quanto
vittime: “c’è stato un evento terribile che ci ha dato il diritto di esserci e la parola ce la
siamo conquistata non solo perché familiari, ma perché abbiamo lottato. Ognuno ha
imparato a distinguere fra il proprio dolore personale e ciò che volevamo comunicare al
resto dell’opinione pubblica. Non voglio che mi ascoltino per pietà, non siamo mai
andati a piangere da nessuno, ma siamo sempre in prima linea a rivendicare. Ci siamo
assunti la responsabilità di far sapere, di ottenere giustizia, e non ci siamo chiusi nel
nostro dolore. Il nostro obiettivo è quello di ottenere giustizia, nessuno di noi vuole fare
a vita il familiare della vittima”53.
       La passione è ancora una volta spinta etica, “energia” che nasce come una scintilla e
quindi si propaga attraverso la gente, che mette in discussione la realtà e allo stesso
tempo crea e propone nuovi valori, nuove situazioni, nuovi modelli e comportamenti,
arricchendo i soggetti appassionati di competenze, esperienze, capacità che la
mobilitazione fa venire a galla. E’ l’esperienza stessa dello “stare insieme” a costituire
un valore: agendo per ottenere verità e giustizia, i familiari delle vittime non solo fanno
luce sui responsabili e li additano davanti alla collettività, ma mostrano all’intera
cittadinanza che si può essere cittadini attivi, partecipi, difensori dei propri diritti.
Indipendentemente dal conseguimento di un obiettivo prefissato, il percorso compiuto
dagli associati costituisce un’esperienza di apprendimento, emancipazione e
acquisizione di nuove competenze relativamente all’essere cittadini. Le passioni escono
dalla sfera privata e diventano passioni civili, forze aggreganti, spinta all’azione ma
anche strumento per la definizione di valori collettivi e di innovative modalità di
partecipazione alle vita pubblica.


       1.6. Passioni civili


       Da sentimento individuale la passione può dunque prendere forma di un sentire
collettivo, trasformandosi profondamente: “il torrente (…) si muta in un fiume dotato di

53
     Testimonianza raccolta da G. Turnaturi in Associati per amore, op. cit., pagg. 9-10



                                                                                             34
una direzione e magari di una forza del tipo longue durée. (…) Una metamorfosi capace
talvolta di generare, fatte salve le inevitabili modifiche, una più ricca articolazione della
passione medesima”54. Qui non si tratta più di distinguere tra razionale e irrazionale,
perché una reazione apparentemente irrazionale come il ribrezzo di fronte ad un sopruso
può infine manifestarsi in una pienamente razionale richiesta di giustizia. Si tratta
invece di comprendere come le passioni, interpretate nel senso comune come
espressioni della sfera individuale, possano non solo accomunare più persone motivate a
ricercare un’alternativa ad uno stato di cose che provoca disagio, ma anche diventare la
forza vitale di questa azione creativa, e perfino esserne un fondamento tanto profondo
da richiedere di essere riconosciuto. Attorno alle passioni civili si costituiscono gruppi
sociali che ricercano quello che Weber definisce “scopo razionale rispetto al valore”, in
cui la realizzazione dello scopo coincide con l’azione spesa per conseguirlo e non può
prescindere da essa: in altri termini, si realizzano valori comuni incarnandoli nel proprio
agire. Le passioni che danno vita a questa azione nascono per la strada, tra le gente e
dall’esperienza comune e uniscono gli individui, spingendoli a rielaborare i valori e a
riflettere sul loro ruolo nella vita pubblica: sono quindi anche un mezzo fondamentale
per avere esperienza del proprio tempo e per essere parte attiva della propria epoca.
Sono passioni che creano, anche a costo di scontrarsi con le leggi stabilite: solitamente,
infatti, le proteste verso condizioni di ingiustizia ed oppressione ottengono una
valutazione negativa da parte di chi detiene il potere (e spesso è l’oggetto stesso della
contestazione). Emozioni come la rabbia, il disgusto, l’indignazione, e le loro
esternazioni, per la norma possono essere considerate devianti e quindi venire
stigmatizzate. Ma è attorno ad esse che si formano i gruppi di protesta. Ed, anzi, è
proprio grazie alla condivisione e alla legittimazione, da parte degli attori, di reazioni
emozionali simili che un gruppo di protesta può esistere e perdurare55. Proprio perché
hanno le proprie radici nel terreno comune delle passioni e dei valori condivisi, i gruppi
di protesta possono riunire membri provenienti dai più disparati contesti culturali e
sociali: si pensi, ad esempio alle straordinarie mobilitazioni contro l’annunciato attacco
americano all’Iraq, che il 15 Febbraio 2003 portarono in piazza milioni di persone in
tutto il mondo, e che la scrittrice Arundhati Roy definì “la più spettacolare forma di

54
 S. Moravia, Esistenza e Passione, op. cit.,pag. 30
55
 cfr. P. A. Thoits, Devianza Emozionale: futuri obiettivi della ricerca, in La sociologia delle emozioni,
Anabasi, 1995, pag. 128



                                                                                                      35
moralità pubblica che il mondo abbia mai visto”. Le immagini della manifestazione
svoltasi a Roma mostrano un’estrema varietà tra i partecipanti, che provenivano tanto
dagli ambienti più tradizionalmente legati alla contestazione, quanto da altri più inattesi:
bambini e anziani, anarchici e religiosi, partigiani e associazioni pacifiste e per i diritti
civili, partiti politici e rappresentanti delle istituzioni e dei sindacati56. Sono state le
passioni forti – la rabbia, l’indignazione, ma anche la paura – la scintilla che ha spinto
milioni di persone a occupare lo spazio pubblico nel tentativo di cambiare il corso degli
eventi e di proporre un’alternativa al futuro di violenza che si prospettava all’orizzonte.
Allo sdegno per l’ostinazione statunitense a voler entrare in guerra a tutti i costi, perfino
al prezzo di scavalcare le Nazioni Unite e di violare pesantemente la legalità
internazionale, si univa la consapevolezza che una guerra contro l’Iraq, paese già messo
in ginocchio dalle devastazioni della guerra del 1991 e da 12 anni di pesante embargo,
sarebbe costata la vita a migliaia di innocenti e avrebbe solo rinvigorito la reazione dei
gruppi terroristici. Fermare il circolo vizioso di terrorismo e guerra che si era innestato
negli ultimi anni era la richiesta che, coniugata nelle forme più differenti, veniva da tutti
coloro che quel giorno erano scesi in piazza. E tale richiesta era tanto urgente, tanto
pressante che le diedero voce anche coloro che erano sempre stati zitti: “…sono stata
sommersa dalle telefonate, e sapete perché? Ho appeso le locandine della
Manifestazione e ci ho messo sopra il mio numero di telefono. Abito in un piccolo
paesino, Roero, sulle colline piemontesi [Cuneo]. La mia gente è silenziosa, diffidente,
ancorata alla terra come gli alberi e le viti che qui abbondano…”57


     1.7. Una richiesta di giustizia


     L’indignazione di fronte ad una condizione di ingiustizia è il motore fondamentale
della protesta. Come passione civile, essa coniuga tanto un carattere distruttivo, quanto
la propensione a generare un’alternativa: con la forza della rabbia e del disgusto, essa si
scaglia con determinazione contro ciò che lede la dignità di un essere umano, ma al


56
   Il seguente è un commento di un lettore della rivista Carta, pubblicato sul numero speciale che fu
dedicato alle manifestazioni del 15 Febbraio (allegato al settimanale Carta n. 7 del 27 Febbraio 2003):
“Cento milioni in tutto il mondo. No, non è Capodanno; è la pace. Un’utopia? Cambierà qualcosa?
Qualcosa è già cambiato, se suore e ragazzi tatuati e anarchici si ritrovano insieme sotto una sola bandiera
dai tanti colori.”
57
   Lettera di una lettrice pubblicata sullo speciale di Carta allegato al n. 7 del 27 Febbraio 2003.



                                                                                                        36
contempo produce un discorso creativo, il cui intento è proporre un nuovo modello che,
nascendo sulle macerie dell’ingiustizia che si è voluta abbattere, introduca finalmente
uno stato di giustizia nei rapporti tra gli uomini. L’indignazione conduce alla protesta,
poiché per sua natura, ben lungi dal consumarsi esclusivamente nel corpo, essa esige di
essere esternata. A differenza dell’ira, che sorge quando l’attacco è scagliato contro la
nostra dignità, l’indignazione si potrebbe definire un’emozione altruistica: il male che
viene fatto ad un nostro simile ci riguarda tutti, è un’offesa perpetrata contro l’umanità.
Come accennato in precedenza, la protesta e la ribellione possono essere sanzionate
negativamente, in particolare da chi detiene il potere (e che non di rado è la causa, in
varia misura, delle ingiustizie che sono oggetto della protesta), ma l’indignazione trae
autonomamente la propria legittimità, sulla base di un principio che potremmo
sintetizzare con le parole di Adam Smith: “la violazione della giustizia è appropriato
oggetto di risentimento e di punizione, che del risentimento è naturale conseguenza”58.
Un ulteriore principio che rende la protesta irrinunciabile si basa sulla considerazione
che, se ribellarsi all’ingiustizia può essere criticabile o sanzionabile, l’inerzia dinnanzi
ad essa appare di gran lunga più intollerabile. Il senso di giustizia nei confronti di un
nostro simile ci appare più forte di qualsiasi considerazione sulla decenza convenzionale
delle azioni che compiamo per impedire che la dignità di qualcuno sia violata. Esistono
valori che avvertiamo come universali, rispetto ai quali non si può scendere a
compromessi di alcun tipo, poiché riconoscere e preservare la dignità di ogni essere
umano è essenziale, in quanto “fondamento della libertà, della giustizia e della pace del
mondo”59. Un’idea di giustizia che non coinvolge dimensioni ed interessi
particolaristici, ma l’intero genere umano.
       Negli anni della sua lotta, il leader sudafricano del movimento contro l’apartheid
Steve Biko espresse fermamente la convinzione che, se non si reagisce di fronte
all’ingiustizia, se ne diventa complici. In un articolo pubblicato sul giornale studentesco
della South African Students Organization, Biko si rifece al concetto di colpa metafisica
di Jaspers per descrivere efficacemente questa convinzione: “Fra gli uomini, perchè
sono uomini, esiste una solidarietà in base alla quale ciascuno risponde di qualsiasi
ingiustizia e torto di fronte al mondo e in particolare dei crimini commessi in sua
presenza o di cui non può essere all’oscuro. Se non faccio tutto ciò che posso per
58
     A. Smith, Teoria dei Sentimenti Morali, op. cit., pag. 200
59
     Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Preambolo.



                                                                                         37
prevenirli io ne sono complice... se ho taciuto, mi ritengo colpevole in un modo che non
può essere adeguatamente compreso giuridicamente, politicamente o moralmente...”60.
Il messaggio di Biko era rivolto al mondo intero, affinché non rimanesse colpevolmente
indifferente di fronte ad un regime razzista che offendeva il senso di giustizia dell’intero
genere umano. Nel 1977 Steve Biko fu imprigionato, torturato e ammazzato dalla
polizia sudafricana durante un interrogatorio nella stanza 619 del commissariato di Port
Elizabeth. La sua stessa morte divenne simbolo dell’ingiustizia contro cui aveva lottato.
Donald Woods, autore della biografia del leader nero, scrisse: “La morte di Steve Biko
esige che si levi una reazione di sdegno gridata forte dai quattro angoli della terra. E’
stato finalmente e incontrovertibilmente stabilito che la politica dell’apartheid è il più
ignobile affronto a tutta l’umanità mai escogitato da una decisione collettiva fin dal
sorgere dello stato procedurale”61. L’ingiustizia che veniva messa in luce, dunque, non
riguardava solamente la morte di Biko, ma l’intero sistema razzista dell’apartheid,
l’esistenza di una società in cui i diritti delle persone erano divisi in misura diversa a
seconda del colore della pelle, un’offesa a tutti noi in quanto membri dell’umanità. La
reazione di indignazione di fronte ad esso è espressione del nostro senso di giustizia.
     La durezza delle parole usate da Biko e da Woods è emblematica: si può forse
adottare un tono conciliante di fronte a valori rispetto ai quali non è assolutamente
possibile scendere a compromessi? Le parole, in questo caso, non sono chiacchiere, ma
parole di denuncia, e sono uno sprone ad agire per cambiare la realtà, anziché esserne
complici silenziosi. Ecco perché ritroviamo termini altrettanto duri in un più recente
articolo di Gianni Canova, nuovamente contro la guerra preventiva anglo-americana
contro l’Iraq: “Questa volta sarà anche colpa nostra. Colpa di chi lascerà fare. Di chi
tacerà di fronte ai massacri sperando nell’ennesimo condono fiscale. Nessuno potrà dire,
questa volta, io non c’entro. O io non sapevo. (…) Se tace è complice. Ha le mani che
grondano sangue. A noi, senza testa, non restano che le parole per dirlo. E per
scongiurare l’ipotesi di doverci vergognare, fra vent’anni, di quel che abbiamo fatto, e
di come abbiamo ridotto il mondo.”62



60
   In D. Woods, Biko, Sperling & Kupfer, Milano 1989 pag. 150
61
   ibidem, pag. 369
62
   Gianni Canova, Noi, headless, in [Duel] 102, 02/2003, Febbraio/Marzo 2003




                                                                                          38
Nel recente libretto Una lettera di Pietro Ingrao63, lo storico protagonista della
politica italiana racconta un toccante episodio personale, avvenuto nel 1992 e relativo
alla Guerra del Golfo. Concludere con queste parole di Ingrao appare un modo
decisamente efficace per mettere in luce il modo in cui le passioni possono spingere
l’individuo a cercare di cambiare la realtà, impegnandosi in prima persona: “L’altra sera
(…), ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la
guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente
insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella
insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono
vergognato, perché io non ho fatto e non facevo nulla di fronte a ciò che rappresentava
quella realtà. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare come una motivazione
morale. C’entrano gli «altri» in quanto la loro condizione mi «turba», e senza gli «altri»
non esisto (nemmeno sarei nato)”.




63
  Qui ne viene citato l’estratto pubblicato, con il significativo titolo La politica, che passione, su La
Repubblica, 12 Luglio 2005



                                                                                                            39
“Nonostante tutte queste grane
                                                                 riesce a trovare ancora il tempo per leggere?”
                                               “Sì, altrimenti… che facciamo? Negli eserciti di prima, i soldati
                                               approfittavano del tempo libero per pulire le armi e rifornirsi di
                                                munizioni. E dato che le nostre armi sono le parole, dobbiamo
                                                         poter ricorrere al nostro arsenale in ogni momento.”64


     2. Parlare


     2.1. Dall’indignazione alla parola


     Nel capitolo precedente è stato descritto succintamente il momento in cui, mosso
dall’indignazione verso un’ingiustizia, l’individuo è spinto a mobilitare le proprie
energie per denunciarla, per opporvisi e per chiedere che sia ripristinato uno stato di
giustizia. L’interrogativo cruciale aperto da Boltanski poneva il problema di quale
forma di reazione sia concessa all’individuo che assiste alla sofferenza di un proprio
simile, senza poter però intervenire direttamente, perché troppo lontano dall’evento di
cui è spettatore. Boltanski rispondeva che all’individuo reso impotente di fronte
all’ingiustizia non rimane che una reazione: indignarsi. La passione dell’indignato è una
passione per sua natura predisposta all’azione. Ma quando l’azione fisica è resa
impossibile da qualche forma di costrizione, l’indignazione trasforma l’impulso della
rabbia in azione verbale: lo strumento di cui si avvale l’indignato è la parola, che
assume la forma della condanna e della protesta. Di fronte ad un sofferente sottoposto ai
soprusi di un carnefice, l’indignato si scaglia contro il persecutore: condanna uno stato
di cose che ritiene intollerabile e, protestando, solidarizza con la vittima e si batte
perché la sua sofferenza abbia termine. E’ attraverso la parola, “la parola incontrollata,
in libera circolazione, clandestina, ribelle, senza uniforme, non certificata, terrore dei
tiranni”65, che è possibile ottenere quel cambiamento che l’indignato esige con
risolutezza.
     S’è visto anche come l’atto di tacere possa essere una colpa infame quanto quella di
partecipare attivamente al crimine: tacendo diventiamo complici, ovvero avalliamo uno
stato di cose e in qualche modo ne siamo corresponsabili. L’opposto dello stare zitti, nel
momento in cui si è a conoscenza di un’ingiustizia, è parlare. Ma, posto che tacere di

64
   La clessidra degli zapatisti, intervista al subcomandante Marcos di Gabriel Garcìa Màrquez e Roberto
Pombo
65
   in R. Kapuscinski, Il cinico non è adatto a questo mestiere, e/o, Roma 2000, pag. 17



                                                                                                             40
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L'indignazione e il potere delle immagini

  • 1. UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in Scienze della Comunicazione L’indignazione e il potere delle immagini Tesi di laurea in Sociologia (Sociologia delle emozioni) Relatore Presentata da Prof.ssa Turnaturi Gabriella Casoni Francesco Terza Sessione Anno accademico 2004/2005 1
  • 2. INDICE: Introduzione.............................................................................................................pag. 5 1. Indignarsi ...........................................................................................................pag. 14 1.1. Una definizione 1.2. Compassione, pietà, indignazione 1.3. Rabbia, disgusto, indignazione 1.4. La passione come motivazione ad agire 1.5. Contro l’oblio: la strage di Bologna 1.6. Passioni civili 1.7. Una richiesta di giustizia 2. Parlare.................................................................................................................pag. 40 2.1. Dall’indignazione alla parola 2.2. Lealtà, defezione e protesta 2.3. Exit e Voice a confronto: costi e vantaggi 2.4. Modalità di azione collettiva 2.5. Pagare o parlare 2.6. La parola di denuncia 2.7. Il primato della parola 3. La simpatia.........................................................................................................pag. 61 3.1. Immaginare 3.2. Scoprire l’altro 3.3. Narrazione e simpatia 3.4. Nutrire l’immaginazione 3.5. Indignarsi oggi 2
  • 3. 4. Guardare.............................................................................................................pag. 80 4.1. Il potere delle immagini 4.2. Immagini ed emozioni 4.3. Immagini come vere: i Sacri Monti 4.4. I disastri della guerra 4.5. E poi venne la fotografia 4.6. Fotografia e indignazione 5. Usare la fotografia...........................................................................................pag. 103 5.1. Usi della fotografia 5.2. Strumento politico 5.3. Fotografia come testimonianza 5.4. Contro l’inimmaginabile 5.5. L’immagine immortale: immagini e memoria 5.6. Immagini e parole 6. Guerra alla guerra...........................................................................................pag. 128 6.1. L’altra faccia della guerra 6.2. Chi è Ernst Friedrich 6.3. Guerra alla Guerra: fotografia come terapia d’urto 6.4. L’inferno della guerra 6.5. La tomba dell’eroe 6.6. Il vero volto della guerra 6.7. Prevenire la guerra 7. Le immagini di Abu Ghraib............................................................................pag. 148 7.1. La scintilla 7.2. Il “caso” Abu Ghraib 3
  • 4. 7.3. La punta dell’iceberg 7.4. Perché sono state scattate? 7.5. Le immagini hanno “vinto”? 7.6. Responsabilità 8. Conclusioni.......................................................................................................pag. 170 8.1. Le immagini che indignano 8.2. Post scriptum Bibliografia...........................................................................................................pag. 180 4
  • 5. “Voglio che la gente che decide di votarmi sia indignata quanto me”1 Introduzione Nelle pagine che seguiranno si discuterà del modo in cui le immagini di atrocità provochino, o possano eventualmente provocare, l’indignazione nell’animo di chi osserva. Quindi, collateralmente, la dissertazione riguarderà anche il modo in cui le immagini possano essere usate per ottenere, attraverso la reazione emotiva scatenata, una presa di coscienza da parte dell’osservatore che lo spinga ad agire per rimediare al male di cui è testimone. L’indignazione, infatti, come illustreremo più dettagliatamente nei primi capitoli, è una passione che non si consuma all’interno dell’individuo, ma spinge ad agire nei confronti di ciò che l’ha scatenata. Prima di interrogarsi sul modo in cui determinate immagini possano indignare, è però fondamentale chiedersi che cosa in generale origina l’indignazione. Posto che esiste un ampio novero di motivi per cui ci si indigna o, per meglio dire, ci si dichiara indignati – talvolta confondendo l’indignazione con la propria rabbia, il disgusto o la compassione – l’evento che scatena l’indignazione può essere definito genericamente come qualcosa che offende il nostro senso di giustizia. Ci si indigna nel vedere, o semplicemente nel venire a conoscenza di un torto perpetrato ingiustamente nei confronti di un nostro simile, che lo pone in una condizione di sofferenza, di umiliazione, di privazione di diritti o anche solo di negazione della propria dignità, se non di negazione della vita tout court. Chiaramente, per suscitare indignazione, la pena a cui l’altro è sottoposto deve essere immeritata, o percepita come tale. Ciò significa che la vittima può anche avere, per così dire, “meritato” di subire una pena a cagione di qualche atto commesso, ma chi la vede soffrire per tale pena ritiene che il castigo sia eccessivo, terribile, impietoso, umiliante o profondamente ingiusto. D’altro canto, chi protesta per l’esecuzione di un condannato a morte, si sente indignato indipendentemente dal fatto che il giustiziato si sia reso colpevole dell’uccisione di un altro individuo. Non c’è dubbio che l’uccisione di un innocente contribuisca a far percepire la pena di morte come ancora più ingiusta, ma chi si oppone 1 Dario Fo, candidato alle primarie come sindaco di Milano, The Guardian, Dicembre 2005 5
  • 6. ad essa lo fa anche, forse soprattutto, nei casi in cui il condannato è riconosciuto colpevole, perché a suscitare sdegno è l’atto di uccidere una persona, anche se ciò avviene nel pieno rispetto della “legalità”. Ci si può indignare in pari misura per quella aberrante forma di condanna a morte costituita dalle esecuzioni mirate compiute dall’esercito israeliano a danno di appartenenti ad Hamas o Jihaad Islamica, pur continuando a condannare gli atti di violenza che tali organizzazioni infliggono alla popolazione civile israeliana. Quando parliamo di giustizia, insomma, è bene precisare che non intendiamo di certo la giustizia civile o penale, dalla quale, d’altra parte, possono dipendere atti profondamente ingiusti: anche tralasciando il caso estremo della pena di morte, che altro non è che l’esito finale di una procedura penale, persino un semplice processo, magari fondato su ragioni sacrosante, può degenerare in uno spettacolo, o in un rituale di degradazione in cui il condannato è offerto come capro espiatorio al pubblico ludibrio, finendo insomma per trasformarsi in vittima. Ci si indigna quotidianamente per piccoli casi di ingiustizie che, in realtà, sono atti perfettamente legali sotto il profilo giuridico: per il proscioglimento di un criminale dovuto a vizio procedurale, prescrizione, insufficienza di prove; per l’esecuzione di uno sfratto che sbatte in mezzo alla strada una famiglia o che costringe un anziano a lasciare il quartiere in cui è vissuto, magari per trasferirsi in un ospizio; oppure per la precarietà imposta all’esistenza dalla cosiddetta “flessibilità” del lavoro, che costringe soprattutto i più giovani a guadagnarsi da vivere arrangiandosi tra più lavori, con contratti a termine o a progetto che garantiscono prospettive per il futuro pari alla durata (in mesi) dell’impiego. Ciò che entra in gioco in questi casi è una concezione della giustizia intesa più strettamente come ciò che ci appartiene come “giusto”, indipendentemente da una valutazione istituzionale di legalità. Chiaramente, far dipendere l’indignazione da una concezione di “giustizia” così definita, implica la possibilità che l’indignazione, e non solo la sua manifestazione esteriore, sia culturalmente condizionata. D’altro canto, la stessa idea di “legalità” non è certo universalmente condivisa: in alcuni stati americani la pena di morte è prassi istituzionale, in Italia è largamente disapprovata. Addirittura, all’interno di una stessa società, si possono scontrare diverse concezioni della legalità: c’è chi ritiene che utilizzare squadre antisommossa armate di manganello e lacrimogeni per disperdere una 6
  • 7. manifestazione o un picchetto sia necessario per il mantenimento dell’ordine pubblico, e chi invece lo considera un atto di violenza ingiustificabile. La guerra è ritenuta di volta in volta un “male necessario”, se non un “atto umanitario” da alcuni settori ideologici, non necessariamente i più estremisti. Per fare un esempio, in un’intervista rilasciata nel 1996, all’epoca del durissimo embargo imposto all’Iraq, al programma 60 Minutes della Cbs (incidentalmente, proprio il programma che nel 2004 ha mostrato le foto delle torture di Abu Ghraib), l’ambasciatrice americana all’ONU Madeleine Albright, alla domanda se la morte di 500.000 bambini iracheni a causa delle sanzioni fosse stato un prezzo che valeva la pena di pagare, rispose così: “Credo che sia una scelta molto dura, ma il prezzo... riteniamo che valesse la pena pagarlo”2. I settori più radicalmente pacifisti, quelli che ripudiano la guerra “senza se e senza ma”, invece, non potevano che condannare un simile eccidio, per quanto compiuto con l’avallo delle Nazioni Unite. Anzi, l’approvazione dell’Onu all’embargo apparve persino agli stessi cooperatori dell’organizzazione3 come un tradimento degli ideali e degli scopi su cui era stata fondata, che includevano “riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole”4. (E, nel caso citato, l’indignazione è doppia, perché scatenata non solo dalla morte ingiusta di centinaia di bambini iracheni, ma anche dal cinismo delle dichiarazioni ufficiali.) Che l’indignazione subisca l’influenza del contesto culturale apparirà chiaro da alcuni casi cui faremo riferimento nel corso della dissertazione, come quello descritto dallo scrittore Alessandro Baricco in un articolo per La Repubblica e relativo ad una mostra fotografica sui linciaggi attuati in alcune cittadine americane tra la fine dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento5: in queste circostanze, gli abitanti della città accorrevano addirittura in massa per farsi fotografare assieme al cadavere dell’accusato. Non c’è traccia di indignazione nei volti delle persone in posa nelle fotografie dei linciaggi, vere e proprie cartoline ricordo realizzate per l’evento. In una di esse, relativa ad un linciaggio compiuto a Fort Lauderdale, in Florida, nel 1935, vi si 2 Punishing Saddam, “60 Minutes”, CBS Television, 12 Maggio 1996, cit. in J. Pilger, I nuovi padroni del mondo, Fandango, Roma 2002, pag. 63 3 Non va dimenticato che, nel periodo delle sanzioni all’Iraq, furono numerosi i responsabili che si dimisero in polemica con l’Onu, dichiarando di non voler essere complici di un eccidio. 4 Carta delle Nazioni Unite, San Francisco, 26 Giugno 1945, preambolo (testo italiano approvato dalla Società Internazionale per l’Organizzazione Internazionale). 5 A. Baricco, Le cartoline della morte. Il linciaggio in mostra, La Repubblica, 14 Luglio 2000 7
  • 8. vede addirittura una bambina sorridente in mezzo alla folla dei curiosi. Al giorno d’oggi, nella maggior parte dei casi, atti del genere risultano sconvolgenti agli occhi degli stessi americani. Oltre a ciò, il fatto che le ragioni per cui ci si possa “indignare” siano molteplici comporta anche la possibilità che l’indignazione sia connotata negativamente, confondendola ad esempio con una rabbia civile senza senno. Scrive, ad esempio, Giuseppe D’Avanzo su La Repubblica, a proposito delle polemiche sull’assoluzione, da parte del tribunale di Milano, di cinque maghrebini accusati di aver arruolato e mandato in Iraq mujaheddin per combattere le truppe americane: “l’indignazione non serve a capire. Può infiammare l'opinione pubblica, forse. Per il resto lascia le cose come sono. Al più le confonde. I sentimenti non servono a capire che cosa e perché è accaduto a Milano, dove sono stati prosciolti cinque maghrebini accusati di aver reclutato, alla vigilia dell'attacco americano, combattenti da inviare nel nord dell'Iraq”6. Altrimenti, l’indignazione può essere considerata erroneamente una passione sterile e passiva, in particolar modo da chi oppone il “fare” concreto ad un “parlare” che ritiene vuota chiacchiera (tema di cui ci occuperemo nel secondo capitolo), come scrive William T. Vollmann: “Siamo tutti inclini a vivere nelle comodità; e quando alcuni schivano le gelide pendici del Nobile Principio, preferendo osservarle sotto di sé dal confortevole altopiano della Profonda Indignazione, sarà meglio perdonarli; potremmo non essere capaci di scacciarli, dato che avranno fortificato il loro accampamento”7. Alla luce di ciò, dunque, dedicheremo l’intero primo capitolo ad una definizione più chiara possibile dell’indignazione, connotata nello specifico come una passione civile. E’ una passione civile perché attiene alla nostra appartenenza ad una società e, in senso più generale, al genere umano. Ciò che scatena l’indignazione è il torto perpetrato a danno di un nostro simile. E’ civile perché è pubblica, in quanto si esprime non attraverso gesti individuali, ma mediante azioni pubbliche basate sulla parola: manifestazioni, atti di denuncia e di condanna, richieste di giustizia. E, infine, si può definire civile anche perché, costituendo la scintilla da cui traggono origine cause civili, può costituire la forza aggregante di gruppi sociali, civili e politici, che di queste cause si fanno promotori, come le Associazioni dei familiari delle vittime di cui si tratterà nel primo capitolo. 6 G. D’Avanzo, L’indignazione e il diritto, La Repubblica, 25 Gennaio 2005 7 W. T. Vollmann, Afghanistan Picture Show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova, 2005 8
  • 9. In questo capitolo, inoltre, cercheremo di distinguere più nettamente l’indignazione da alcune emozioni con cui essa viene talvolta confusa: tracceremo dunque la differenza tra la compassione, la pietà e l’indignazione, basandoci soprattutto su quanto scritto da Hannah Arendt, nel secondo capitolo di Sulla Rivoluzione, e da Luc Boltanski in Lo spettacolo del dolore; di seguito, distingueremo l’indignazione dalla rabbia e dal disgusto, nell’intento di darne una definizione meno ambigua possibile. Dell’atto di parlare ci si occuperà più specificamente nel secondo capitolo, prendendo in esame il testo fondamentale di Albert O. Hirschman (Lealtà, defezione, protesta), alcuni saggi di Bourdieu che ne sviluppano i contenuti e, infine, il contributo di Luc Boltanski, che oppone il parlare pubblico alla beneficenza individuale (pagare o parlare, insomma). L’esame di questi contributi sarà, ovviamente, finalizzato a delineare una definizione dell’atto di parola come qualcosa di non meramente verbale – la cosiddetta parola “gratuita”, la vuota chiacchiera, il parlare per parlare – ma come parola agente, che costruisce e mantiene coesi i gruppi sociali e che costituisce lo strumento per eccellenza dell’azione politica. Dunque, considereremo la parola in opposizione a quegli atti, come la rinuncia all’acquisto per protesta contro un’azienda, il voto per un candidato politico o la beneficenza in denaro verso chi soffre che, pur essendo considerati più prettamente “concreti”, pratici, effettivi della parola, costituiscono però azioni individuali, al più aggregabili, ben lontane da una azione di tipo politico o civile come quella che solo la parola può promuovere. Nel terzo capitolo si tratterà di un elemento fondamentale per il sorgere dell’indignazione: la simpatia, intesa come la capacità di solidarizzare con gli stati d’animo di un nostro simile. Verrà affermato che la simpatia basa la propria efficacia sull’immaginazione, secondo quanto teorizzato da Adam Smith in Teoria dei sentimenti morali, ovvero sulla capacità di immaginare se stessi nei panni dell’altro, raffigurandosi i suoi stati d’animo come se li si vivesse sulla propria pelle. Sempre riferendoci a Smith e a Boltanski, ma anche a quanto scritto da Martha Nussbaum sul romanzo e la tragedia greca, sosterremo l’ipotesi che l’immaginazione tragga il proprio nutrimento non solo dall’esperienza quotidiana, ma anche dall’esperienza indiretta che un gran numero di prodotti culturali e mediali mettono a disposizione. D’altro canto, una larga fetta dell’esperienza che l’uomo moderno ha del dolore è sempre più mediata non solo dalla letteratura e dalla narrativa cinematografica, ma soprattutto dai mezzi di comunicazione 9
  • 10. di massa e dai nuovi media informativi. In conclusione al terzo capitolo, dunque, lasceremo aperta una riflessione sulla possibilità che la diffusione di risorse informative e culturali come la televisione e internet, ormai onnipresenti nell’esperienza quotidiana, e il dominio che le logiche commerciali esercitano sulle produzioni culturali, influiscano pesantemente sul formarsi dell’indignazione e sulle reazioni pubbliche ad essa connesse. Dal quarto capitolo in avanti si analizzeranno più dettagliatamente le questioni relative alla rappresentazione per immagini, soffermandosi sul caso specifico della fotografia. Il primo problema da porsi riguarda il rapporto tra le immagini e le emozioni, e quindi tra la fotografia e le emozioni, che vedremo essere più complesso di quanto non possa apparire. In particolare, nell’esaminare i rapporti tra la fotografia e l’indignazione, si renderà necessario rinunciare a qualsiasi determinismo causale, per sostenere, invece, che la rappresentazione fotografica di sofferenze non necessariamente provocherà indignazione. Non dimentichiamo che una fotografia costituisce solo un brandello di realtà, non la realtà stessa, e dunque non sempre è in grado di fornire una conoscenza dei fatti tale da condurre all’indignazione: nel vedere le sofferenze di un nostro simile, senza conoscere le cause che le hanno generate, senza essere in grado di individuare un carnefice non direttamente visibile, l’animo di chi osserva potrebbe essere spinto verso la compassione, se non verso l’indifferenza. In realtà, come dimostreremo in questo e nel successivo capitolo, il contesto in cui la foto viene inserita determina profondamente le emozioni che genera. Dunque, si tratta soprattutto di considerare la fotografia come strumento e usarla consapevolmente, con l’obiettivo di sfruttare le sue potenzialità per un intento preciso: indignare e spingere a ribellarsi ad una condizione di ingiustizia. Nel capitolo 5, pertanto, saranno prese in esame alcune caratteristiche della fotografia che ne determinano l’utilità come risorsa per spingere all’indignazione: se è vero che non necessariamente l’immagine di un’atrocità condurrà ad indignarsi (e, d’altro canto, il punto critico non è nella fotografia, ma nella disposizione d’animo di chi guarda. L’indifferenza non è prerogativa solamente di chi guarda sofferenze lontane, ma spesso anche di chi queste sofferenze le percepisce a pochi passi da sé), sosterremo che è comunque possibile sfruttare il potere delle immagini per mostrare ciò che le parole possono falsare, o addirittura ciò che non può essere neppure immaginato – è il caso 10
  • 11. delle immagini “rubate” da alcuni prigionieri nei campi di concentramento nazisti, di cui ci si occuperà più dettagliatamente. Allo stesso tempo, sosterremo che l’immagine ha ancora bisogno della parola per farsi capire: se l’intento di mostrare le sofferenze altrui è spingere all’indignazione, si renderà indispensabile fornire all’osservatore una certa quantità di informazioni (chi è la vittima? E’ parte di un fenomeno più esteso? Chi sono i responsabili di tale sofferenza?) che la sola immagine raramente è in grado di contenere, o che contiene in modo ambiguo. Le immagini dunque vanno fatte parlare – o, per parafrasare John Berger (Sul guardare), devono essere dotate di una memoria che non possiedono – ricorrendo ad espedienti retorici: la didascalia, per esempio, ma anche l’accostamento con altre immagini, per cercare di rendere la fotografia sempre meno un frammento isolato della realtà e sempre più parte di una struttura radiale che metta ogni frammento in connessione con un altro, perlomeno tendendo a ricomporre il mosaico della realtà. Nel sesto capitolo sarà approfondito il caso di Guerra alla Guerra, atroce galleria di immagini della Prima Guerra Mondiale pubblicata nel 1924 dall’anarchico pacifista Ernst Friedrich (e ristampato, almeno in Italia, solamente nel 2004, forse non casualmente). Nel libro, che è un esplicito invito ad indignarsi e rivoltarsi in massa contro la guerra, Friedrich adotta mirabilmente gli espedienti retorici di cui è in possesso – in qualità di attore e di stampatore di testi politici – per rendere le sue terribili fotografie ancora più eloquenti. Non si limita, insomma, a mostrare la morte orribile, la sofferenza fisica, la devastazione portata dalla guerra, ma vuole anche svelare l’ipocrisia e il cinismo dei governanti che mandano i soldati al massacro, dei generali incolumi dietro le linee del fronte, dei potentati economici che sostengono le guerre per curare i propri interessi. Friedrich ottiene il suo scopo non solo infliggendo al lettore un crescendo ben calcolato di atrocità, ma commentando le fotografie con didascalie sprezzanti, ironiche e taglienti. Più volte, come vedremo, Friedrich ricorrerà all’abbinamento di più immagini significative per sostenere la propria tesi, per esempio accostando immagini della morte terribile riservata ai soldati in trincea con quelle dei governanti e degli alti gradi dell’esercito che si godono beatamente una scampagnata o una tazza di tè. Il libro di Friedrich appare di notevole interesse per il tipo di foto di cui si avvale: scatti neutri, perlopiù realizzati da soldati o da medici militari non certo con l’intento di 11
  • 12. commuovere, indignare o magari farsi beffe del nemico, ma assai probabilmente per la banale ragione di “raccogliere dati”. Non vi vediamo, insomma, fotografie come quelle a cui ci hanno abituato Robert Capa o Don Mc Cullin, in cui la guerra è ritratta comunque attraverso l’occhio di un autore, e dunque con un intento preciso, che può essere anche, semplicemente, quello di realizzare una bella foto. Le immagini di Guerra alla Guerra parlano perché Friedrich presta loro la sua voce e le mette al servizio di una causa. Prese da sole, costituiscono uno shock: rivoltano lo stomaco, fanno piangere, contrarre il viso, emettere gemiti di disappunto. Ma non indignano, e dunque non fanno parlare. Quello che Friedrich intende, invece, è realizzare un’opposizione attiva alla guerra, che non sia quella dei “pacifisti borghesi che vogliono combattere la guerra con i gesti dolci e le smorfie drammatiche (per esempio alzando gli occhi al cielo)”8, ma di uomini e donne che scendono in strada gridando “noi ci rifiutiamo!”, che scioperino, blocchino i treni in partenza, trattengano chi vuole partire per il fronte. Se trattando di Guerra alla Guerra si sarà esaminato un caso, per così dire, già realizzato, nel settimo capitolo ci si interrogherà invece – e senza la pretesa di esaurire un dibattito tutt’altro che chiuso – sulle immagini che nel Maggio 2004 hanno mostrato ad una buona fetta di pianeta le torture perpetrate dai militari americani sui prigionieri iracheni di Abu Ghraib. Il caso, s’è detto, rimane aperto perché, nonostante quelle fotografie (e molte altre che sono seguite) abbiano sollevato un’ondata di indignazione nel mondo occidentale e arabo, e nonostante lo scandalo abbia aperto la strada ad una serie interminabile di denunce delle sevizie compiute dai militari americani, da agenti della Cia e da contractors al servizio dell’esercito statunitense in Iraq, in Afghanistan, a Guantanamo Bay ma anche in numerosi paesi mediorientali, asiatici e persino europei, permane qualche perplessità: se è vero che le fotografie hanno costituito lo shock iniziale da cui è nato lo scandalo, è altrettanto facile affermare che non è grazie alla testimonianza delle immagini che giustizia sarà fatta, se questo mai avverrà. Le foto di Abu Ghraib nascondono molteplici paradossi: nate per umiliare e sottomettere i prigionieri del carcere, sono divenute poi atto di accusa contro i carcerieri. Ma c’è un altro paradosso: se le foto sono una prova schiacciante, di fronte a cui Lynndie England, Charles Graner, Sabrina Harman e gli altri torturatori identificati non possono più dichiararsi innocenti, sembra che proprio l’esibizione dei responsabili ritratti dagli scatti 8 E. Friedrich, Guerra alla Guerra. 1914-1918: scene di orrore quotidiano, Mondadori, Milano 2004, pag. 15 12
  • 13. sia la strategia migliore per favorire la tesi delle mele marce (le foto vengono dichiarate un’eccezione, anziché costituire un frammento di una realtà più complessa), regalando l’impunità a chi nelle immagini non compare. Insomma, ci si è indignati verso alcuni aguzzini, ma per scovare i veri responsabili, la catena di comando che ha autorizzato e incoraggiato le torture, le immagini si sono rivelate insufficienti: ben più eloquenti sono stati i rapporti militari, i reportage giornalistici, le denunce delle associazioni umanitarie che, ancora una volta attraverso la parola, sono state in grado di descrivere minuziosamente una realtà complessa di cui le immagini possono solo restituire brandelli isolati. 13
  • 14. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore” E’ il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”.9 1. Indignarsi 1.1. Una definizione Si potrebbe definire l’indignazione come un moto dello stomaco. Come la collera, è un sentimento violento, che infiamma il ventre. Come il disgusto, essa mette in subbuglio lo stomaco. La reazione che ci coglie nell’assistere all’altrui sventura è qualcosa che “mette lo stomaco sottosopra”10, espressione simile a quella usata da Angenot, che descrive il discorso di collera come qualcosa di profondamente radicato nel corpo, “un discorso che esprime una reazione viscerale”, che è “strappato al ventre”11. E’ dunque un’emozione radicata in profondità, che ci mette in subbuglio e alla cui spinta non ci si può sottrarre: siamo costretti ad agire nei confronti dell’ingiustizia di cui siamo spettatori. Si possono sviluppare innanzitutto alcune considerazioni accostando due definizioni tratte dal vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli: Indignazione, s.f., Risoluta ribellione a quanto offende la dignità propria o altrui [Dal lat. indignatio –onis, der. di indignari ‘indignare’]. Indignare, v.tr., muovere a sdegno, suscitare indignazione o vivo risentimento: mi indigna la sua presunzione • Come medio intr., reagire con un atteggiamento di protesta e condanna risoluta: a quella proposta si indignò; arc. Anche sempl. intr.: di questa azione del gonfaloniere indegnarono tanto i nuovi governatori (Segneri). [Dal lat. Indignari, der. di indignus ‘indegno’]. 9 Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici 10 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli, Milano 2001, pag. 205 11 in L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, Raffaello Cortina, Milano 2000, pag. 102 14
  • 15. In entrambe le definizioni ricorrono alcune caratteristiche cruciali nel definire la natura di questa passione. In primo luogo: da quale evento sorge? Se la rabbia è scatenata in genere da un’offesa che ci colpisce direttamente e personalmente, l’indignazione, nella definizione data, può invece sorgere di fronte a una condizione di ingiustizia che non ci riguarda direttamente, ma di fronte alla quale non è neppure possibile rimanere indifferenti. Pur non essendo ferito nella propria viva carne, l’indignato avverte la sofferenza dell’altro come un’offesa che lo riguarda comunque in una misura tale da generare una reazione spontanea contro ciò che ne è la causa. Ecco dunque un secondo tratto caratteristico dell’indignazione: essa comporta necessariamente un’azione, nella forma di una “risoluta ribellione”, di “un atteggiamento di protesta e condanna risoluta”. Ben lungi dall’essere un’emozione statica, che si adagi immobile nell’interiorità, essa si traduce immediatamente in azione, in attività volta al cambiamento di una situazione ormai inaccettabile. L’indignato, come vedremo più avanti, anziché tacere, prende la parola e si scaglia contro l’autore dell’offesa. La condanna dell’ingiustizia è “risoluta”. Questo termine ricorre in entrambe le definizioni prese in esame e il motivo dovrebbe apparire chiaro alla luce di quanto detto in precedenza: esiste un senso del giusto che ci spinge a considerare il torto fatto ad un nostro simile come un torto fatto a noi stessi, in quanto appartenenti alla famiglia umana. Per dirla con le parole di Rousseau, esiste una “innata ripugnanza a veder soffrire una creatura umana”. Non è possibile scendere a compromessi: si possono forse usare parole accomodanti per condannare atti di violenza o sadismo, uccisioni, stupri o torture senza rischiare di porsi nella stessa posizione dei carnefici? La lesione della dignità di un altro essere umano deve essere condannata in modo risoluto. Ad esempio, la fermezza delle dichiarazioni contro la guerra in ogni epoca non è dovuta – come spesso si accusa – all’estremismo ideologico di chi le pronuncia, ma alla consapevolezza che esistono valori dinanzi a cui non si può voltare il capo altrove e ingiustizie rispetto alle quali ci si può solo opporre con la massima determinazione. Anche perché tacere può portarci ad essere complici di queste stesse ingiustizie. L’indignazione si delinea dunque come passione che sorge nell’assistere ad un evento inaccettabile, indegno, ingiusto, che colpisce non noi stessi ma un nostro simile. Essa si traduce immediatamente in un discorso pubblico, che “imbriglia” l’energia della rabbia e la trasforma in condanna, parola agente che richiede con determinazione che 15
  • 16. l’atto di ingiustizia cessi. Queste peculiarità e in particolare le modalità del suo tradursi in azione saranno rese evidenti nel confrontare tale passione con altre due comuni reazioni alla sofferenza di un nostro simile: la compassione e la pietà. Esse, pur essendo state per lungo tempo assimilate all’indignazione, e ancora oggi di frequente confuse con essa, presentano tuttavia difformità cruciali per quanto riguarda il rapporto che istituiscono con la vittima dell’ingiustizia e per le differenti reazioni che scatenano nello spettatore dell’altrui sofferenza. 1.2. Compassione, pietà, indignazione La compassione, la pietà e l’indignazione appartengono alla medesima categoria di passioni, quelle che Shott definisce “emozioni empatetiche”12. La caratteristica che definisce questo genere di emozioni è che esse “derivano dal mettersi mentalmente nei panni dell’altro, e dallo sperimentare quelli che potrebbero essere i suoi sentimenti in quella particolare situazione”13. Sono empatetiche, dunque, dal momento che mettono in contatto emotivo due individui separati. Si tratta insomma di “emozioni strutturate sul ruolo”, in base alle quali l’individuo è spinto a comportarsi altruisticamente per far cessare la sensazione di dolore ed oppressione che gli viene provocata dall’immedesimarsi nelle sofferenze dell’altro. Vi sono forti analogie, ma altrettanto fondamentali differenze, con il rapporto che Smith, nella sua Teoria dei sentimenti morali, individua tra uno spettatore e la vittima di una sofferenza, rapporto che è mediato proprio dalla capacità di calarsi nei panni altrui attraverso l’immaginazione. La differenza cruciale consiste nel fatto che Smith predilige l’instaurarsi di un rapporto di simpatia, piuttosto che di empatia, tra spettatore e vittima. Se empatia significa coincidere completamente con l’altrui dolore, la simpatia implica invece un distacco: lo spettatore morale di Smith è distante dalle sofferenze a cui assiste, non le subisce su di sé. Di fronte ad esse è dunque imparziale, perché non coinvolto. Inizia ad agire partendo da una posizione di disimpegno, ed è proprio in questa distanza che si manifesta la sua grandezza morale, che ne fa appunto uno spettatore morale, poiché egli prende parte a 12 S. Shott, Emotion and Social Life: a Simbolic Interactionist Analysis, in American Journal of Sociology 85, 1979 13 P. A. Thoits, La sociologia delle emozioni, in G. Turnaturi (a cura di), La sociologia delle emozioni, Anabasi, Milano 1995, pag. 41 16
  • 17. sofferenze che non lo coinvolgono direttamente. Potrebbe disinteressarsene, ma non lo fa. Anzi, si immedesima egli stesso nelle sofferenze a cui assiste, ricorrendo non all’empatia, bensì alla simpatia, cioè alla capacità di immaginare lo stato d’animo dell’altro, cioè immaginarsi nella stessa situazione, e solidarizzare con le pene altrui. Smith non sembra però tracciare una distinzione netta tra compassione e pietà, e tanto meno definire distintamente la reazione di indignazione. Come vedremo, invece, queste tre passioni costituiscono stati differenti del rapporto che lega lo spettatore alla vittima di un’ingiustizia, dando vita a manifestazioni significativamente differenti sia sotto il profilo della capacità di partecipare al dolore altrui, sia per quanto riguarda le modalità di reazione all’ingiustizia a cui si assiste. Si può delineare una sorta di percorso che si sviluppa attraverso tre tappe, coincidenti con i tre stati d’animo, in cui ciascuna passione si presenta come una sorta di evoluzione di quella che la precede (senza che il termine “evoluzione” sia inteso nel senso di un’attribuzione di maggior valore ai sentimenti che occupano i posti più inoltrati lungo il percorso). Nel secondo capitolo di Sulla Rivoluzione, Hannah Arendt distingue le peculiarità del sentimento di compassione, differenziandolo nello specifico dalla pietà. In particolare, nel suo scritto Arendt mette in luce due elementi basilari per la nostra definizione di indignazione: innanzitutto, il ruolo decisivo svolto dal guardare le sofferenze altrui. Per Arendt “l’oscurità, e non il bisogno, è la maledizione del povero”14. Il povero “si sente fuori dagli sguardi degli altri, brancolante nel buio. L’umanità non si accorge neppure della sua esistenza. Egli vaga a casaccio e passa inosservato. In mezzo a una folla, in chiesa, al mercato (…) Egli è del tutto nell’ombra, come se fosse in una soffitta o in una cella. Non è biasimato, criticato, censurato: semplicemente nessuno lo vede”15, ed è infatti l’atto di essere spettatori del dolore a spingere gli uomini alla compassione. Arendt mette in relazione lo spettacolo della povertà con le grandi rivoluzioni sociali degli ultimi tre secoli (ad esclusione di quella americana): “distogliere gli occhi dalla miseria e dall’infelicità della gran massa dell’umanità non era possibile nella Parigi del diciottesimo secolo o nella Londra del diciannovesimo”16 e proprio nel momento in cui tale miseria esce dall’oscurità gli 14 H. Arendt, Sulla Rivoluzione, Edizioni di comunità, Torino 1999, pag. 72 15 J. Adams, Discourses on Davila, in Works, Boston 1851, vol. VI, pagg. 239-40, cit. in H. Arendt, op. cit., pag. 71 16 Ibidem, pag. 76 17
  • 18. uomini diventano spettatori ed iniziano a chiedersi come cambiare uno stato di cose insopportabile. Questo è il secondo elemento cruciale della riflessione di Arendt, la forza vitale che le passioni immettono nell’agire pubblico: la compassione divenne spinta motrice delle rivoluzioni17. Ciò che contava era fondamentalmente “la capacità di immergersi nelle sofferenze degli altri”18, piuttosto che l’azione concreta, l’atto di bontà nei confronti del sofferente. Appare dunque una prima caratteristica della compassione che la distingue dalla pietà e dall’indignazione. Compassione – che deriva dal latino compatior, il cui significato è soffrire assieme, prendere parte alla sofferenza altrui – viene definita da Arendt come “l’esser colpiti dalle sofferenze di qualcun altro come se fossero contagiose”19. Ciò che la contraddistingue è il suo indirizzarsi al singolare, poiché essa “non può estendersi al di là delle sofferenze di una singola persona e restare ugualmente ciò che si presume sia, un patire insieme”20. Essa infatti si concentra su singoli casi di sofferenza, prendendosene cura, ma senza sviluppare capacità di generalizzazione. E’ nella sua natura rivolgersi al particolare, poiché essa “non ha alcuna nozione del generale né alcuna capacità di generalizzazione”21. La compassione fa appassionare al dolore di una persona, ma si ferma a quel caso – o ad una serie di casi isolati – senza considerarlo come sintomo di un fenomeno più esteso. Lo sguardo compassionevole vede la miseria del povero e ne soffre, ma non è in grado di comprendere la miseria come fenomeno diffuso, né tanto meno le sue cause. Limite della compassione è il suo non essere un’emozione cosciente, ma vissuta come stato d’animo momentaneo. Come tale, essa si rivolge direttamente verso il sofferente, senza subire un’ulteriore elaborazione che le consenta di costruire un discorso sull’ingiustizia. L’uomo mosso da compassione guarda solo la sofferenza davanti ai propri occhi e non si interessa a ciò che il proprio animo sta provando di fronte a tale sofferenza. La compassione dunque, non prende coscienza di sé, né si dimostra in grado di creare una teoria più generale della sofferenza, ed è per questa 17 “Per Robespierre era ovvio che l’unica forza che poteva e doveva unificare le diverse classi della società per farne una sola nazione era la compassione di quelli che non soffrivano per quelli che erano malheureux, delle classi alte per il basso popolo”, ibidem, pag. 84 18 Ibidem, pag. 85 19 Ibidem, pag. 90 20 Ibidem 21 Ibidem 18
  • 19. ragione che essa, a differenza della pietà, “non è loquace”22. Ciò non significa che essa sia completamente silenziosa, ma piuttosto che il suo linguaggio “è fatto di gesti e di espressioni del corpo piuttosto che di parole”23, non produce un discorso sulla sofferenza, “parla solo nella misura in cui deve rispondere direttamente ai suoni e ai gesti, ossia alle pure e semplici espressioni con cui la sofferenza diviene udibile e visibile nel mondo”24. In altre parole, essa abolisce l’intervallo che normalmente esiste nei rapporti umani, abolisce la distanza, ovvero il “tra di noi”. Distanza che è, nelle parole di Arendt, “quello spazio terreno fra gli uomini in cui si svolgono gli affari politici e si colloca l’intero campo delle vicende umane”25. “La compassione consente una comprensione diretta dell’identità dell’altro (ovvero indipendente dalle sue qualità mondane), ma è incapace di porre tra sé e l’altro una distanza in cui possa trovare spazio il mondo. Essa vive, cioè, di assenza di distanza e, non a caso, è muta, opaca, aliena alla luminosità dello spazio pubblico”26. Ma è nello spazio di tale distanza che prende forma l’azione politica, il cui strumento è la parola, parola di condanna, di denuncia, come vedremo, volta a produrre dei mutamenti. Proprio perciò la compassione appare muta, perché, sprovvista della parola, essa non produce reali conseguenze e risultati sul piano politico, ovvero non è in grado di attuare quel cambiamento che porterebbe alla fine della condizione di sofferenza a cui si assiste. In questo molto diversa dall’indignazione, la compassione di solito non si lancia in un’azione volta a modificare le condizioni presenti e far terminare le sofferenze a cui si rivolge, “ma se lo fa, respinge i logori e noiosi processi della persuasione, del negoziato e del compromesso, che sono i processi della legge e della politica, e presta la sua voce agli stessi uomini che soffrono e che devono pretendere un’azione veloce e diretta, ossia l’azione per mezzo della violenza”27. La pietà, invece, supera i limiti della compassione come pura passione, grazie alla capacità di introspezione. La compassione viene scoperta e intesa come un sentimento, e questo sentimento è la pietà. Essa concilia la passione per i singoli casi di sofferenza con la capacità di ricercare manifestazioni più generali della sofferenza. “La pietà, 22 L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, op. cit., pag. 8 23 H. Arendt, Sulla Rivoluzione, op. cit., pag. 91 24 Ibidem, pag. 92 25 Ibidem, pag. 91 26 P. Costa, Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione, in La società degli individui, n. 18, anno VI, 2003/3 27 H. Arendt, Sulla Rivoluzione, op. cit., pag. 92 19
  • 20. poiché non è ferita nella propria carne e mantiene la sua distanza sentimentale, può riuscire dove la compassione fallirà sempre: può protendersi verso la moltitudine e quindi, come la solidarietà, arrivare alla massa degli uomini”28. Se individuare le sofferenze di vittime singolari è necessario perché sorga la compassione, la produzione di una generalizzazione si rivela necessaria per far fronte alla distanza tra lo spettatore e il sofferente29. L’individuo mosso da pietà non si lascia andare ad uno stato d’animo del momento, ma elabora la passione attraverso l’introspezione, prendendone coscienza come di un’emozione e divenendo in grado di trasmetterla come una teoria più generale sull’ingiustizia. Tuttavia, come scrive ancora Costa, queste caratteristiche costituiscono anche un limite della pietà: “quando fa il suo ingresso nella sfera pubblica la compassione subisce una trasformazione essenziale. Essa diventa sentimento di pietà e perde la capacità di distinguere l’altro che si trova di fronte nella sua individualità. Spersonalizzando i soggetti che compatisce, la pietà finisce in effetti per accorparli in un aggregato privo di volto”30. C’è un altro nodo cruciale con cui tale emozione si deve necessariamente confrontare, quello dell’azione diretta al mutamento delle condizioni di ingiustizia. Si tratta di una conseguenza irrinunciabile, poiché, come sottolinea Susan Sontag, “la compassione è un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti inaridisce”31. La pietà deve dunque accompagnarsi all’orientamento all’azione, necessità legata al bisogno di porre fine alla sofferenza a cui si sta assistendo, altrimenti si ricadrebbe nel dominio di una compassione sterile, in cui va perduta una teoria della giustizia in grado di agire contro condizioni che ledono la dignità di altri esseri umani. L’azione in favore del sofferente può però incorrere nel limite drammatico dell’incapacità di agire, generata dalla distanza fisica tra lo spettatore e l’oggetto della sua pietà. La separazione può rendere arduo, se non addirittura impossibile, muoversi concretamente contro l’ingiustizia cui la vittima è sottoposta. La distanza fisica, le barriere politiche, economiche o giuridiche che spesso si interpongono tra spettatore e 28 Ibidem, pag. 94 29 Diverse associazioni umanitarie fanno un uso accorto di singole storie particolarmente adatte ad essere testimoni di una condizione generale di sofferenza, senza peraltro rinunciare a descrivere il contesto in cui esse avvengono: a titolo d’esempio, si pensi alle storie a lieto fine del notiziario periodico italiano di Amnesty International, o a Soran, ragazzino kurdo mutilato da una mina antipersona, la cui storia viene narrata con passione nei filmati sull’attività di Emergency in Iraq Soran non aver paura (1998) e L’arcobaleno e il deserto (2003). 30 P. Costa, Martha Nussbaum: la compassione entro i limiti della ragione, op. cit., pag. 133 31 S. Sontag, Di fronte al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, pag.84 20
  • 21. vittima, finiscono per generare una sensazione di impotenza, tanto più nel momento in cui la sofferenza dell’altro si reitera sotto i nostri occhi senza che sia possibile impedire in qualche modo che ciò avvenga. Lo stesso Smith non manca di evidenziare come la sensazione di non poter fare nulla di concreto per soddisfare il proprio risentimento per un’ingiustizia possa divenire un vero e proprio tormento32. Il rischio, piuttosto elevato, è che la sensazione di impotenza faccia cadere in uno stato di scoramento e rassegnazione che mortifichi qualunque tentativo d’azione, un passo indietro verso l’isterilimento della compassione descritto da Sontag. Questo passaggio cruciale è esplicato lucidamente dall’interrogativo di Boltanski: “di fronte allo spettacolo di un infelice che sta soffrendo lontano, cosa può fare lo spettatore, condannato – almeno nell’immediato – alla inazione, ma moralmente ben disposto?”33. La risposta è una sola, ed è netta: può indignarsi. I sentimenti di pietà e indignazione sono dunque concatenati e, d’altro canto, non ci sarebbe alcuna ragione di indignarsi nell’assistere ad un’ingiustizia se si fosse completamente sprovvisti di pietà. Come si potrebbe risentirsi del torto perpetrato alla dignità di un altro essere umano senza possedere la capacità di simpatizzare con il suo dolore? Provare pietà è dunque indispensabile, ma ciò che marca la differenza tra le due emozioni è il fatto che l’indignazione è una pietà che “non rimane disarmata e, di conseguenza, impotente, ma si dota delle armi della collera”34. Essa si esprime, si esterna, in quanto reazione viscerale, in modo risoluto. Ma l’energia scatenata è sottoposta suo malgrado al limite della distanza fisica tra l’indignato e il persecutore verso cui è indirizzata la collera: dunque, nell’incapacità di esprimersi in azione fisica in grado di far cessare l’ingiustizia, essa si muta in un attacco verbale. La violenza sublima, divenendo parola, in forma di condanna e protesta. La parola – parola agente – è arma dell’indignazione, strumento di condanna delle ingiustizie e mezzo per richiedere risolutamente un cambiamento, premendo con tutte le energie per ottenerlo. Il discorso dell’indignato assume la forma dell’accusa rivolta, ovviamente, non all’infelice (per sua natura già sottoposto ad un’offesa), ma al suo aguzzino. Ci si ribella al posto di chi non può ribellarsi, si protesta al posto di chi non può protestare. Perché la sofferenza che l’altro sta patendo ci coinvolge senza scampo: basata sulla simpatia, l’indignazione 32 Cfr. A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, op. cit. pag. 268 33 L. Boltanski, Lo spettacolo del dolore, op. cit. pag. 91 34 Ibidem, pag. 91 21
  • 22. è dunque un’emozione che spinge a prendersi attivamente cura dell’altro, a farsi carico della sua condizione di sofferenza e a reagire con decisione a qualunque offesa gli venga rivolta. E’ ben più che il semplice interesse per le condizioni dei deboli, degli oppressi, dei paria, dei perdenti. Indignarsi significa scendere in campo al loro fianco, considerando l’ingiustizia che essi subiscono come una ferita inferta all’intera umanità e di fronte alla quale girarsi dall’altra parte e proseguire oltre, fingendo che non stia succedendo nulla, sarebbe intollerabile. 1.3. Rabbia, disgusto, indignazione E’ opportuno aprire una parentesi per tracciare un’ulteriore distinzione, si spera chiarificatrice, tra l’indignazione e altre due passioni, che potremmo definire “viscerali”: la rabbia e il disgusto. Riferendosi all’indignazione, Boltanski delineava come caratteristico di tale passione il fatto che essa non rimanga “disarmata”, impotente, ma si doti delle “armi della collera”. Preliminarmente, avevamo già stabilito una prima distinzione tra l’indignazione e la rabbia: laddove la rabbia sorge per una causa che ci tocca in prima persona, l’indignazione è causata da qualcosa che colpisce un altro individuo e che, tuttavia, finisce per riguardarci nel momento in cui simpatizziamo con i suoi stati d’animo. Ma la distinzione tra la rabbia e l’indignazione non è così netta. Mario Vegetti, nel suo saggio sull’ira (menis) omerica, elenca quattro termini presenti nel poema per definire questo sentimento: “menis vale propriamente ‘indignazione’, ‘risentimento violento’; essa è in rapporto con cholos, la ‘collera’ aspra ed amara (in seguito connessa al temperamento ‘bilioso’); ci sono poi menos, il ‘furore’ guerriero del campo di battaglia, e infine thymòs, l’impulso emotivo che scatena l’azione (connesso a menos)”35. Sembra dunque che rabbia e indignazione siano, in qualche misura, correlate. A titolo d’esempio, basti confrontare le definizioni relative all’indignazione e all’atto di indignarsi che vengono date dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, edizioni UTET: 35 M. Vegetti, Passioni antiche: l’io collerico, in S. Vegetti-Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari, 2000, pagg. 39-40 22
  • 23. Indignazione (ant. indegnazione), sf. Sentimento di vivo sdegno, di profondo risentimento, di violento disprezzo, di corruccio nei confronti di ciò che si giudica indegno, ignobile, ingiusto, sconveniente o comunque offende la coscienza. Indignare (ant. indegnare, endegnare), tr. Suscitare indignazione, muovere a sdegno; fare adirare. – anche assol. 3. Intr. (anche con la particella pronom.). Provare vivo risentimento, accendersi di sdegno; offendersi, aversi a male, adirarsi. In queste definizioni, a differenza di quelle riportate in precedenza, compare un nuovo elemento: l’indignazione viene associata all’ira. Il legame tra le due passioni viene marcato, nello stesso dizionario, dalla definizione di ira: Ira, sf. Emozione violenta, e talvolta rabbiosa, che si manifesta con atti o parole di aggressiva, incontrollata e per lo più offensiva veemenza, di astioso risentimento che tende alla vendetta o alla punizione contro il fatto, la circostanza, il motivo che ne ha determinato l’insorgere; collera, rabbia, furore (e, secondo la teologia morale, è uno dei sette vizi capitali; anticamente era considerata una demenza parziale). (…) 3. Sdegno, risentimento giustificato, indignazione profonda e veemente. Di tono simile la definizione del già citato Devoto-Oli: Ira s.f. 1. Moto di reazione violenta, spesso rabbiosa, e genrl. non riconducibile ad una giustificazione sul piano umano e razionale: avere uno scatto d’i.; lasciarsi trasportare dall’i.; attirare su di sé le i. di qlc.; i. feroce, cupa, lenta, implacabile. 2. part. Odio come motivo di acceso risentimento o come causa di discordia, spec. civile: Quel da Essi il fe’ far, che m’avrà in i. (Dante); ire di parte • Sdegno alimentato da uno zelo indomabile o da una funzione sacra di giustizia: l’i. dell’Alfieri. (…) 23
  • 24. La differenza tra l’ira e la rabbia può apparire sottile, tuttavia è opportuno riportare anche le definizioni relative a quest’ultima, tratte la prima dal dizionario UTET, la seconda dal Devoto-Oli (e, ovviamente, non considerando il primo significato riportato, riferito all’idrofobia): Rabbia, (ant. ràbia, ràia), sf. (…) 2. Figur. Stato di violento turbamento emotivo determinato per lo più da un risentimento subitaneo per un torto o un danno subito, da una grave contrarietà o da una forte delusione, che si manifesta spesso con alterazioni fisiche (tremito, congestione del volto) e che può indurre a gesti scomposti, ad atti e a parole incontrollate, a esplosioni di violenza verbale o fisica nei confronti di chi si ritiene la causa del danno; collera, ira, furore (rispetto ai quali ha una sfumatura di più bassa, cieca e quasi bestiale perdita del controllo e della ragione, spesso in espressioni del tipo Entrare, montare in rabbia, sfogare la rabbia). (…) – Furore di un gruppo, di una categoria di persone, di una classe sociale (e, in partic., del popolo) che si manifesta in tumulti, in turbolenze, in azioni collettive di violenza. (…) 3. Ira sorda e contenuta come stato permanente dell’animo, che nasce per lo più da sconfitte subite, da condizioni di oppressione e dal conseguente senso della propria impotenza , da dissenso ideologico e politico, da grave disagio esistenziale. (…) – Sentimento collettivo che proviene da condizioni di oppressione politica e sociale, dal desiderio di rivalsa contro gli oppressori. (…) Rabbia s.f. (…) 2. Rel. a persone, irritazione violenta e incontrollata, oppure chiusa e impotente, di chi vede irrealizzati o irrealizzabili i propri desideri, o insaziabili le proprie voglie e passioni; anche, reazione di stizza o di dispetto che ispira l’atteggiamento, momentaneo o abituale, di un’altra persona, o la condizione altrui considerata migliore e più desiderabile della propria. Queste definizioni aiutano già da subito a chiarire la differenza tra la rabbia e l’indignazione e, quindi, a definire per contrasto l’indignazione stessa. Innanzitutto, a 24
  • 25. differenza della rabbia, l’indignazione non è scatenata da un torto subito in prima persona, come già ribadito: è l’ingiustizia a cui è sottoposto un nostro simile a indignarci. Se indignazione e rabbia possono essere accostate è perché la condizione del nostro simile ci colpisce come se fosse la nostra: in qualche modo, dunque, l’indignazione è una sorta di “rabbia altruistica”. Tuttavia, è nelle loro manifestazioni fisiche che rabbia e indignazione divergono radicalmente. Quest’ultima non si esprime “con alterazioni fisiche” o attraverso “gesti scomposti” o “atti e parole incontrollate”, né tanto meno in “tumulti” e azioni violente, ma, lo ripetiamo, attraverso la parola. L’indignazione, è bene precisarlo, non spinge alla violenza, né può tradursi in azioni violente. La distanza tra l’indignato e la vittima impedisce l’azione violenta nei confronti del persecutore: in questo spazio la furia sublima e si dispiega invece l’azione politica, basata sulla parola. La violenza della rabbia costituisce semmai l’elemento più istintivo dell’indignarsi, la spinta che costringe ad agire: “sembra che la rabbia ci carichi di energia, di certezze, di decisione, di coraggio – stiamo male, ma crediamo di sapere cosa ci farebbe star meglio. (…) Veniamo presi da un vortice che ci sbatte, che ci costringe ad agire, una specie di possessione che ci fa perdere la vista, da lontano ma anche da vicino”36. Dalle definizioni esaminate, sembra che il limite della rabbia consista nella mancanza di una via alternativa tra violenza incontrollata e impotente chiusura. L’indignazione supera questo limite esprimendosi nell’atto di denuncia. In esso si risolve il dilemma tra due posizioni inconciliabili, quella della violenza forsennata e quella della chiusura impotente: la spinta ad agire diviene il motore dell’azione verbale, che è denuncia, condanna, mai violenza verbale fine a se stessa, attraverso cui la passione si esterna. Dell’ira e della rabbia, in sostanza, si può dire che l’indignazione conservi l’impulso all’azione, ma tale impulso è convogliato in altre direzioni. La rabbia è un moto istintivo che spinge all’aggressione fisica o verbale, non sempre verso il giusto obiettivo, mentre l’indignazione è un sentimento che, se sorge come istintiva ripugnanza verso qualcosa che offende il nostro senso di dignità, si traduce però in riflessione, ricerca di responsabilità e denuncia dei responsabili. Giacché abbiamo detto che il torto perpetrato nei confronti di un altro essere umano può ripugnarci, il secondo sentimento su cui è necessario soffermarsi è il disgusto, a cui 36 V. D’Urso, Arrabbiarsi, Il Mulino, Bologna, 2001, pag. 16 25
  • 26. già nelle primissime righe di questo capitolo abbiamo fatto riferimento, definendo l’indignazione come un moto dello stomaco, idea che rispecchia le parole di Adam Smith (qualcosa che “mette lo stomaco sottosopra”) e che ritroveremo più avanti: Pietro Ingrao, per esempio, descrive la propria indignazione di fronte alla sofferenza dei bambini iracheni come una “nausea psichica”37. Tra l’altro anche la rabbia si può considerare un moto dello stomaco (probabilmente più dell’indignazione): abbiamo già riportato la definizione del “discorso di collera” di Angenot, inteso come “un discorso che esprime una reazione viscerale”. Tra le reazioni fisiologiche che D’Urso associa alla rabbia – aumento del battito cardiaco, tensione muscolare, emicrania, balbettio e altre – vengono rilevati anche “contrazioni e bruciori allo stomaco”38. Va notato, en passant, che anche altre emozioni trovano la loro espressione fisica (inappetenza, nausea, gastrite, una morsa indefinibile) in questa zona del corpo. Se l’indignazione costituisce, s’è detto, una rabbia più “fredda”, distaccata, tuttavia essa nasce da una reazione di sdegno viscerale nei confronti di qualcosa che offende il nostro senso della dignità. In un certo senso, dunque, l’indignato è, in partenza, disgustato da ciò di cui viene a conoscenza, perché lo ritiene intollerabile. Diamo un’occhiata alle definizioni del dizionario Devoto-Oli: Disgusto s.m. Acuto e persistente senso di ostilità fisica o morale proveniente da sazietà, o da malumore o risentimento più o meno motivati: provare d. delle sigarette; il tuo cinismo mi ispira d. [Da dis-I e gusto]. Disgustare v. tr. 1. Provocare nausea, avversione, ripugnanza: un simile comportamento mi disgusta; è di un egoismo, di una grettezza che disgustano • Di cibo o bevanda, essere intollerabile: quel pesce mi disgusta. 2. medio intr. Passare ad un acuto e persistente senso di fastidio nei confronti di qlc. o di qlcs.: mi sono disgustato col mio collaboratore (…) E quindi a quelle del solito dizionario UTET: 37 P. Ingrao, La politica, che passione, La Repubblica, 12 Luglio 2005 38 V. D’Urso, Arrabbiarsi, op. cit., pag. 67 26
  • 27. Disgusto, sm. Sensazione sgradevole al gusto (o agli altri sensi); ripugnanza per cibi, bevande; nausea. (…) 2. Figur. Fastidio profondo (che nasce da stanchezza o da ripugnanza fisica o morale); viva repulsione dell’animo, insofferenza (per persone, cose, azioni, idee, ecc.); turbamento del senso estetico, sgradevole sensazione di bruttezza; senso di sazietà e nausea verso ogni cosa e l’intera vita, dalla quale si ostenta di non desiderare più nulla e di non attendersi nessun piacere. – Anche in senso concreto: ciò che provoca ripugnanza, sazietà. Disgustare, tr. Suscitare disgusto; offendere il gusto, riuscire disgustoso (un cibo, una bevanda). (…) 2. Figur. Provocare impressioni sgradevoli moleste; dispiacere vivamente; dare un senso di fastidio, di insofferenza, di ripugnanza fisica o morale; suscitare stanchezza nell’animo, nausea profonda per un oggetto, per un’occupazione, per un’attività; alienarsi l’animo o la simpatia di qualcuno con atti o parole che riescono sgradite o male accette; offendere col proprio comportamento o con i propri discorsi la suscettibilità altrui. – Anche assol. (…) Alla luce delle definizioni riportate, possiamo collocare il disgusto, inteso come “nausea psichica”, reazione viscerale a qualcosa di moralmente indecente, come componente dell’indignazione. La sofferenza a cui un persecutore sottopone un nostro simile ci attanaglia lo stomaco, ci fa inorridire. Ma l’indignato supera questo stato d’animo, legato al corpo e alle manifestazioni corporee, elaborando tale disgusto in modo cosciente. Rabbia, disgusto e indignazione sono passioni estremamente diverse, soprattutto per i modi in cui si esprimono: le accomuna, se vogliamo, quella scintilla iniziale che scaturisce da un senso di ingiustizia e indecenza e finisce per mettere in subbuglio le viscere, spingendo a reagire risolutamente per porvi rimedio. 1.4. La passione come motivazione ad agire Consideriamo le parole con cui Howard Zinn, storico e attivista americano, descrive sinteticamente ed efficacemente le reazioni di conoscenti ed amici, contrariati dai 27
  • 28. risultati delle elezioni che, nel Novembre 2004, hanno confermato George W. Bush alla Casa Bianca. “Nei giorni che sono seguiti all’elezione del presidente degli Stati Uniti, sembrava che tutti i miei amici fossero depressi e arrabbiati, frustrati e indignati o semplicemente disgustati. Alcuni vicini, con i quali mi ero sempre limitato a scambiare niente più di un semplice saluto, mi fermavano per strada e mi intrattenevano in discussioni appassionate.”39 Ciò che Zinn condensa abilmente in queste poche righe è il processo attraverso cui le persone da lui citate, inizialmente assalite da un moto di disgusto, rabbia, indignazione rispetto ad un avvenimento che, evidentemente, avvertono come ingiusto, sono spinte ad esternare le passioni che le pervadono. Lo fanno per mezzo della parola, attraverso cui danno voce, letteralmente, ad un’indignazione che esige di manifestarsi. E’ significativo che semplici conoscenti, vicini di casa con cui in genere si scambiano appena i saluti imposti dalla routine, da un giorno all’altro avvertano la necessità di discutere a lungo con qualcuno che condivida le loro passioni. In questo articolo, significativamente intitolato Harness that anger (imbrigliate quella rabbia), Zinn insiste più volte sull’importanza che le passioni individuali possono rivestire nel far nascere un movimento di protesta: “Nella rabbia, nel disincanto, nella frustrazione dolorosa c’è un’enorme energia, e se questa energia viene messa in movimento può ridare una grande forza al movimento contro la guerra (…)”40. La rabbia, dunque, come la frustrazione, il disgusto, l’indignazione, possono divenire il motore di una mobilitazione di massa contro qualcosa che è percepito come profondamente iniquo, immorale, ingiusto. Zinn descrive queste passioni come una forza dirompente che non può essere trattenuta e pertanto rende l’inerzia, il silenzio, la passività insopportabili, e spinge ad agire in prima persona, utilizzando la parola per ribellarsi ad uno stato di cose non più tollerabile. Queste emozioni possono generare grandi mobilitazioni se, anziché disperdersi in espressioni individuali, divengono il collante dell’azione collettiva: la passione, allora, non è solo una forza che dirompe all’esterno, ma anche una forza che tiene insieme un gruppo di persone. In altre parole, così come l’indignazione muove il singolo individuo, così quando accomuna più persone, rivela una natura rivoluzionaria e creativa, facendo nascere gruppi e 39 H. Zinn, Non disperdiamo la nostra rabbia, in Il fantasma del Vietnam e altri scritti sulla guerra, Datanews Editrice, Roma 2005 (titolo originale: Harness that anger, tratto da www.theprogressive.org, gennaio 2005), pag. 19 40 Ibidem, pag. 21 28
  • 29. mantenendoli coesi, generando azioni che mirano ad ottenere un cambiamento in uno stato di cose in cui si avverte l’urgenza di un problema. Come illustra Sergio Moravia nel saggio Esistenza e passione41, le passioni sorgono da una situazione di mancanza o di bisogno, alla quale si reagisce ricercando un’alternativa accettabile allo stato di cose inaccettabile. La passione “è sempre annodata con un Umwelt circostante, diversa, se non addirittura ostile”42 e, ancor più precisamente, essa “si configura come la risultante di una vera e propria relazione dialettica tra un soggetto e il suo contesto”43. La situazione di mancanza o di bisogno, che costituisce l’Umwelt, l’ambiente in cui la passione prende vita e si sviluppa, spinge l’individuo non solo a mettere in discussione, vivacemente, spesso violentemente, le condizioni percepite come ingiuste, ma anche a credere in un’alternativa e a manifestare risolutamente la propria convinzione nella possibilità di realizzare l’alternativa stessa. “Come la passione è essenzialmente una forte credenza, così l’appassionato è per più versi un tenace credente. Crede in un altro, in un oltre, in un meglio.”44 Moravia descrive, efficacemente quanto l’aneddoto di Zinn, le forme che la passione assume nel proprio svilupparsi, poiché essa assai di rado è un fenomeno improvviso, un coup de foudre, ma è piuttosto una storia, dotata di un’evoluzione per fasi, svolte spesso improvvise, brusche sterzate, colpi di scena. Nelle prime fasi, la realtà altra (la realtà a cui si ambisce con tanta forza) è talmente esaltata dalla passione da manifestarsi come una presenza invasiva, quasi fosse talmente a portata di mano da poter essere colta immediatamente e con un rapido movimento. Dominato interamente dalla passione per un’alterità che sembra ad un passo dall’essere realizzata, l’appassionato ne viene totalmente posseduto, come in preda a una sorta di insistente nostalgia. A queste fasi, in cui la realtà altra domina completamente la vita del soggetto, ne seguono altre in cui si manifesta gradualmente una sorta di allontanamento tra il soggetto e l’oggetto della sua passionalità, che conduce non ad una separazione, quanto al raggiungimento di un maggior grado di autonomia, che consente una differente capacità di vivere la propria scelta emotiva. Il soggetto appassionato acquisisce una rinnovata determinazione a seguire la propria scelta emotiva in modo 41 S. Moravia, Esistenza e Passione, in S. Vegetti Finzi (a cura di) Storia delle passioni, Laterza, Roma- Bari 2000 42 Ibidem, pag. 25 43 Ibidem, pag. 25 44 Ibidem, pag. 17 29
  • 30. libero e personale, ed è a questo punto che la passione inizia ad agire sulla realtà, mirando a decostruirla e ricostruirla, ovvero a plasmarla, per darle la forma di quella realtà altra a cui l’appassionato ha rivolto tanto insistentemente il proprio pensiero. Essa, operando attivamente sul presente, giunge ad essere “iniziativa anticonformista e creativa, decostruzione di miti e idées reçues, trasgressione di vincoli e regole, costituzione di condizioni o sentimenti o stati alternativi”45. Ecco dunque manifestarsi il suo carattere doppio, convivenza di distruzione e creazione: da un lato, la realtà esistente non può essere accettata, deve essere fatta a pezzi e cambiata radicalmente; dall’altro, la passione si fa energia che crea e anima una nuova concezione della realtà, o una nuova realtà tout court. Essere appassionati significa dunque credere, o aver fede, nella propria passione e trarre forza da essa. Nell’individuo appassionato emergono, giorno dopo giorno, una tenacia, una forza d’animo, una determinazione a perseguire i propri obiettivi che prima gli erano ignote. La passione genera una svolta, diviene scelta radicale, anima la ricerca ostinata di un mutamento. Da un’altra prospettiva, si può vedere la passione anche come qualcosa che coglie l’individuo e ne domina le scelte, senza che esso possa opporsi. Il soggetto si trova catturato dalla passione, ma è una cattura consenziente: come un Appello (questo è il termine usato da Moravia), la passione risveglia pulsioni in attesa di essere riportate in vita e ben disposte ad esserlo. Al risuonare dell’Appello, si manifesta la realtà altra a cui si dirige il proprio desiderio e inizia la ricerca della sua realizzazione. Così come i vicini di casa di Zinn – solitamente riservati, ma da un giorno all’altro divenuti curiosamente loquaci – così “il borghese piccolo piccolo esce dai suoi orizzonti solitamente privi di passione, slanciandosi in un’impresa spesso più grande di lui”46. Da un giorno all’altro, persone fino ad allora restie ad impegnarsi direttamente danno voce alle proprie passioni, aspirando a realizzare un’alternativa ad uno stato di cose in cui persistono percezioni di mancanza o di bisogno. Gli esempi che potrebbero essere addotti, oltre a quello riportato da Zinn, sono pressoché infiniti nella storia e nel presente: dal movimento operaio che chiede un mutamento nelle condizioni di lavoro all’associazione dei consumatori che propone differenti modelli di consumo o di produzione, dalle associazioni antirazziste che richiedono maggior tutela della dignità dei migranti ai 45 Ibidem, pag. 18 46 Ibidem, pag. 24 30
  • 31. movimenti che si oppongono all’attuale modello di globalizzazione, proponendo alternative sostenibili, ritenute maggiormente eque e giuste, fregiandosi del celebre slogan che è anche la proposta di una realtà alternativa all’attuale: un altro mondo è possibile. Tra i numerosi esempi, ne abbiamo scelto uno che descrive efficacemente il percorso attraverso cui l’indignazione, trasformandosi in una passione civile – passione che anima i singoli e li unisce – mobilita anche individui mai abituati in precedenza ad impegnarsi in prima persona, e li introduce a modalità d’azione collettiva che cambieranno per sempre la loro vita. 1.5. Contro l’oblio: la strage di Bologna E’ possibile trovare una descrizione approfondita di come passioni che nascono da profonde motivazioni etiche possano spingere fuori dalle mura di casa e verso la piazza nel libro di Gabriella Turnaturi Associati per amore47, che raccoglie diverse esperienze di mobilitazione tra la gente comune, dall’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna a quelle di Ustica, dalle madri napoletane che lottano contro la tossicodipendenza fino alla storia del Comitato dei cittadini di Racconigi che si batté contro la sottrazione, decisa dal Tribunale dei Minori, di Serena Cruz alla sua famiglia. Ciò che accomuna i parenti delle vittime di stragi, le madri napoletane o i cittadini del piccolo paese del Cuneese è l’importante mutamento introdotto nella loro vita dall’esperienza della mobilitazione. Solitamente non abituati alla protesta, molti di loro si arricchiranno di nuove risorse e conoscenze, scopriranno nell’esperienza della mobilitazione per una causa collettiva nuovi valori, in parte preesistenti come collante del gruppo, in parte creati dal gruppo stesso. “La richiesta di giustizia e verità noi non la consideriamo una vendetta, ma solo un diritto civile di tutti i cittadini; la consideriamo un diritto civile indispensabile ad evitare che l’impunità generi o faciliti il ripetersi, come già verificatosi, delle stragi. Il diritto alla vita fa parte dei diritti dell’uomo e noi chiedendo Giustizia e Verità difendiamo questo diritto”48, dichiara Torquato Secci, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla Stazione di Bologna e soprattutto padre di Sergio Secci, un ragazzo di ventitrè anni, una delle 85 persone ammazzate nell’attentato. Una strage 47 G. Turnaturi, Associati per amore, Feltrinelli, Milano 1991 48 Ibidem, pag. 7 31
  • 32. tuttora impunita: al processo d’appello, conclusosi il 19 Luglio 1990, tutti gli imputati sono stati assolti. Per alcuni, solo una delle troppe stragi che hanno insanguinato gli anni Settanta e Ottanta, e soprattutto una strage su cui pesano ancora i tentativi di mettere a tacere, insabbiare, rinunciare a interrogarsi. “Contro questa cultura dell’oblio, fatta di precise volontà politiche, ma anche di una rimozione collettiva di fronte a tante morti e a tante responsabilità inevase, c’è stato però chi ha opposto la memoria, la voce del ricordo”49. L’Associazione dei familiari delle vittime prende forma attraverso una lenta riflessione su quanto accaduto, una progressiva elaborazione del lutto, ma soprattutto dall’indignazione per una serie di eventi inaccettabili, come l’assoluzione degli imputati per la strage di Piazza Fontana, il 20 Marzo del 1981. Una sentenza che costituì un’ulteriore violenza a chi aveva già sofferto le conseguenze di un attentato e un grido d’allarme: bisognava agire subito per impedire che la verità sulla morte dei propri cari venisse soffocata dalla cultura dell’oblio, un processo di rimozione che le istituzioni sembravano incoraggiare, più che combattere. Tuttavia in questo caso il ricordo non costituiva un fatto personale e privato, ma un diritto collettivo e un dovere civile. Laddove le istituzioni sembravano persino ostacolare la ricerca della verità sulle stragi, era necessario che i cittadini, beneficiari del diritto alla verità e alla giustizia, si mettessero in azione per rivendicare ciò che spettava loro. L’Associazione dei familiari delle vittime, dunque, nacque per rivendicare e conseguire un diritto: “cercare di raggiungere la verità e la giustizia, che temevamo ci sarebbero state negate similmente a quanto era accaduto per le stragi che avevano preceduto quella di Bologna. L’Associazione doveva ottenere ciò che si era prefissa senza far ricorso alla violenza (…) Raggiunto lo scopo, l’Associazione, che non ricorreva per la sua formazione agli ausili notarili si sarebbe sciolta”50. In poco tempo, dall’iniziativa di una cinquantina di persone si giunge ad un’Associazione di 258 componenti. “Fra quei familiari, colpiti tutti egualmente senza alcuna differenza di ceto e censo c’erano persone colte e politicizzate e persone senza alcuna particolare tradizione di impegno o di mobilitazione, c’erano padri e c’erano figli, c’erano donne e c’erano uomini. Persone lontane e diverse improvvisamente 49 Ibidem, pag. 3 50 Testimonianza di Anna Maria Montani, in T. Secci, Cento Milioni per testa di morto, Targa Italiana Editore, Milano 1989, pagg. 50-51 32
  • 33. accomunate non solo dalla morte dei loro cari, ma dalla convinzione e dalla coscienza che quanto era accaduto non era una disgrazia, una catastrofe naturale, ma qualcosa che poteva essere evitato e di cui bisognava ricercare i responsabili”51. Sono i valori condivisi a costituire il nucleo intorno a cui si addensano esperienze profondamente differenti, ma è soprattutto la volontà che tali valori non rimangano qualità dei singoli individui e diventino invece patrimonio della collettività, a costituire la spinta ad associarsi. Tanto che, attorno all’Associazione dei familiari delle vittime di Bologna, nasceranno i comitati di solidarietà di Bologna, Roma, Venezia e Terni, composti da semplici cittadini, non coinvolti direttamente, ma intenzionati a mettersi in gioco per impedire che calasse il silenzio su eventi che riguardavano, comunque, la collettività: “per molti l’essere presenti, testimoniare la propria volontà di perseguire la verità non è solo un impegno di solidarietà, ma un dovere civile. Impegno morale e impegno politico si saldano così come si saldano emozioni e valorizzazione del proprio essere cittadini”52. Tre anni dopo la nascita dell’Associazione bolognese, vedrà la luce l’Unione delle Associazioni dei familiari delle vittime, con sede a Milano, che raccoglierà al suo interno le associazioni dei familiari delle vittime di Piazza Fontana, dell’Italicus, di Piazzale della Loggia, del rapido 904, con l’intento comune di combattere una cultura del silenzio e dell’oblio che mette in pericolo la ricerca della verità e la consegna alla Giustizia dei responsabili. L’Associazione, s’è detto, rifiuta la violenza. L’arma dei familiari delle vittime di Bologna è la parola, strumento dell’azione politica. Chiedendo giustizia per se stessi, i familiari chiedono giustizia per tutti: la loro azione civile alterna ricerca delle responsabilità e denuncia pubblica, assieme ad atti strettamente politici, come la proposta di legge di iniziativa popolare per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e terrorismo, presentata nel 1984 e approvata solo sei anni dopo. Anche in questo caso, il diritto rivendicato da alcuni, diventa una conquista per la collettività, un passo avanti per la Democrazia. La parola serve ai familiari per far sentire la propria presenza e far pesare le proprie opinioni, per informare i cittadini e per fare pressione sulle istituzioni affinché vengano riconosciute le proprie richieste, per mettere in moto un circolo virtuoso in cui i cittadini prendano atto della possibilità di influire sulle scelte dei governanti. 51 G. Turnaturi, Associati per amore, op. cit., pagg. 2-3 52 Ibidem, pag. 5 33
  • 34. L’esperienza dell’associazione cambia profondamente gli stessi familiari delle vittime, passati in molti casi dalla passività di fronte alle istituzioni alla ricerca attiva di un diritto negato. Hanno appreso come un dolore privato fosse parte di un’ingiustizia che riguardava la collettività, giungendo a ridefinire se stessi, non solo in quanto vittime: “c’è stato un evento terribile che ci ha dato il diritto di esserci e la parola ce la siamo conquistata non solo perché familiari, ma perché abbiamo lottato. Ognuno ha imparato a distinguere fra il proprio dolore personale e ciò che volevamo comunicare al resto dell’opinione pubblica. Non voglio che mi ascoltino per pietà, non siamo mai andati a piangere da nessuno, ma siamo sempre in prima linea a rivendicare. Ci siamo assunti la responsabilità di far sapere, di ottenere giustizia, e non ci siamo chiusi nel nostro dolore. Il nostro obiettivo è quello di ottenere giustizia, nessuno di noi vuole fare a vita il familiare della vittima”53. La passione è ancora una volta spinta etica, “energia” che nasce come una scintilla e quindi si propaga attraverso la gente, che mette in discussione la realtà e allo stesso tempo crea e propone nuovi valori, nuove situazioni, nuovi modelli e comportamenti, arricchendo i soggetti appassionati di competenze, esperienze, capacità che la mobilitazione fa venire a galla. E’ l’esperienza stessa dello “stare insieme” a costituire un valore: agendo per ottenere verità e giustizia, i familiari delle vittime non solo fanno luce sui responsabili e li additano davanti alla collettività, ma mostrano all’intera cittadinanza che si può essere cittadini attivi, partecipi, difensori dei propri diritti. Indipendentemente dal conseguimento di un obiettivo prefissato, il percorso compiuto dagli associati costituisce un’esperienza di apprendimento, emancipazione e acquisizione di nuove competenze relativamente all’essere cittadini. Le passioni escono dalla sfera privata e diventano passioni civili, forze aggreganti, spinta all’azione ma anche strumento per la definizione di valori collettivi e di innovative modalità di partecipazione alle vita pubblica. 1.6. Passioni civili Da sentimento individuale la passione può dunque prendere forma di un sentire collettivo, trasformandosi profondamente: “il torrente (…) si muta in un fiume dotato di 53 Testimonianza raccolta da G. Turnaturi in Associati per amore, op. cit., pagg. 9-10 34
  • 35. una direzione e magari di una forza del tipo longue durée. (…) Una metamorfosi capace talvolta di generare, fatte salve le inevitabili modifiche, una più ricca articolazione della passione medesima”54. Qui non si tratta più di distinguere tra razionale e irrazionale, perché una reazione apparentemente irrazionale come il ribrezzo di fronte ad un sopruso può infine manifestarsi in una pienamente razionale richiesta di giustizia. Si tratta invece di comprendere come le passioni, interpretate nel senso comune come espressioni della sfera individuale, possano non solo accomunare più persone motivate a ricercare un’alternativa ad uno stato di cose che provoca disagio, ma anche diventare la forza vitale di questa azione creativa, e perfino esserne un fondamento tanto profondo da richiedere di essere riconosciuto. Attorno alle passioni civili si costituiscono gruppi sociali che ricercano quello che Weber definisce “scopo razionale rispetto al valore”, in cui la realizzazione dello scopo coincide con l’azione spesa per conseguirlo e non può prescindere da essa: in altri termini, si realizzano valori comuni incarnandoli nel proprio agire. Le passioni che danno vita a questa azione nascono per la strada, tra le gente e dall’esperienza comune e uniscono gli individui, spingendoli a rielaborare i valori e a riflettere sul loro ruolo nella vita pubblica: sono quindi anche un mezzo fondamentale per avere esperienza del proprio tempo e per essere parte attiva della propria epoca. Sono passioni che creano, anche a costo di scontrarsi con le leggi stabilite: solitamente, infatti, le proteste verso condizioni di ingiustizia ed oppressione ottengono una valutazione negativa da parte di chi detiene il potere (e spesso è l’oggetto stesso della contestazione). Emozioni come la rabbia, il disgusto, l’indignazione, e le loro esternazioni, per la norma possono essere considerate devianti e quindi venire stigmatizzate. Ma è attorno ad esse che si formano i gruppi di protesta. Ed, anzi, è proprio grazie alla condivisione e alla legittimazione, da parte degli attori, di reazioni emozionali simili che un gruppo di protesta può esistere e perdurare55. Proprio perché hanno le proprie radici nel terreno comune delle passioni e dei valori condivisi, i gruppi di protesta possono riunire membri provenienti dai più disparati contesti culturali e sociali: si pensi, ad esempio alle straordinarie mobilitazioni contro l’annunciato attacco americano all’Iraq, che il 15 Febbraio 2003 portarono in piazza milioni di persone in tutto il mondo, e che la scrittrice Arundhati Roy definì “la più spettacolare forma di 54 S. Moravia, Esistenza e Passione, op. cit.,pag. 30 55 cfr. P. A. Thoits, Devianza Emozionale: futuri obiettivi della ricerca, in La sociologia delle emozioni, Anabasi, 1995, pag. 128 35
  • 36. moralità pubblica che il mondo abbia mai visto”. Le immagini della manifestazione svoltasi a Roma mostrano un’estrema varietà tra i partecipanti, che provenivano tanto dagli ambienti più tradizionalmente legati alla contestazione, quanto da altri più inattesi: bambini e anziani, anarchici e religiosi, partigiani e associazioni pacifiste e per i diritti civili, partiti politici e rappresentanti delle istituzioni e dei sindacati56. Sono state le passioni forti – la rabbia, l’indignazione, ma anche la paura – la scintilla che ha spinto milioni di persone a occupare lo spazio pubblico nel tentativo di cambiare il corso degli eventi e di proporre un’alternativa al futuro di violenza che si prospettava all’orizzonte. Allo sdegno per l’ostinazione statunitense a voler entrare in guerra a tutti i costi, perfino al prezzo di scavalcare le Nazioni Unite e di violare pesantemente la legalità internazionale, si univa la consapevolezza che una guerra contro l’Iraq, paese già messo in ginocchio dalle devastazioni della guerra del 1991 e da 12 anni di pesante embargo, sarebbe costata la vita a migliaia di innocenti e avrebbe solo rinvigorito la reazione dei gruppi terroristici. Fermare il circolo vizioso di terrorismo e guerra che si era innestato negli ultimi anni era la richiesta che, coniugata nelle forme più differenti, veniva da tutti coloro che quel giorno erano scesi in piazza. E tale richiesta era tanto urgente, tanto pressante che le diedero voce anche coloro che erano sempre stati zitti: “…sono stata sommersa dalle telefonate, e sapete perché? Ho appeso le locandine della Manifestazione e ci ho messo sopra il mio numero di telefono. Abito in un piccolo paesino, Roero, sulle colline piemontesi [Cuneo]. La mia gente è silenziosa, diffidente, ancorata alla terra come gli alberi e le viti che qui abbondano…”57 1.7. Una richiesta di giustizia L’indignazione di fronte ad una condizione di ingiustizia è il motore fondamentale della protesta. Come passione civile, essa coniuga tanto un carattere distruttivo, quanto la propensione a generare un’alternativa: con la forza della rabbia e del disgusto, essa si scaglia con determinazione contro ciò che lede la dignità di un essere umano, ma al 56 Il seguente è un commento di un lettore della rivista Carta, pubblicato sul numero speciale che fu dedicato alle manifestazioni del 15 Febbraio (allegato al settimanale Carta n. 7 del 27 Febbraio 2003): “Cento milioni in tutto il mondo. No, non è Capodanno; è la pace. Un’utopia? Cambierà qualcosa? Qualcosa è già cambiato, se suore e ragazzi tatuati e anarchici si ritrovano insieme sotto una sola bandiera dai tanti colori.” 57 Lettera di una lettrice pubblicata sullo speciale di Carta allegato al n. 7 del 27 Febbraio 2003. 36
  • 37. contempo produce un discorso creativo, il cui intento è proporre un nuovo modello che, nascendo sulle macerie dell’ingiustizia che si è voluta abbattere, introduca finalmente uno stato di giustizia nei rapporti tra gli uomini. L’indignazione conduce alla protesta, poiché per sua natura, ben lungi dal consumarsi esclusivamente nel corpo, essa esige di essere esternata. A differenza dell’ira, che sorge quando l’attacco è scagliato contro la nostra dignità, l’indignazione si potrebbe definire un’emozione altruistica: il male che viene fatto ad un nostro simile ci riguarda tutti, è un’offesa perpetrata contro l’umanità. Come accennato in precedenza, la protesta e la ribellione possono essere sanzionate negativamente, in particolare da chi detiene il potere (e che non di rado è la causa, in varia misura, delle ingiustizie che sono oggetto della protesta), ma l’indignazione trae autonomamente la propria legittimità, sulla base di un principio che potremmo sintetizzare con le parole di Adam Smith: “la violazione della giustizia è appropriato oggetto di risentimento e di punizione, che del risentimento è naturale conseguenza”58. Un ulteriore principio che rende la protesta irrinunciabile si basa sulla considerazione che, se ribellarsi all’ingiustizia può essere criticabile o sanzionabile, l’inerzia dinnanzi ad essa appare di gran lunga più intollerabile. Il senso di giustizia nei confronti di un nostro simile ci appare più forte di qualsiasi considerazione sulla decenza convenzionale delle azioni che compiamo per impedire che la dignità di qualcuno sia violata. Esistono valori che avvertiamo come universali, rispetto ai quali non si può scendere a compromessi di alcun tipo, poiché riconoscere e preservare la dignità di ogni essere umano è essenziale, in quanto “fondamento della libertà, della giustizia e della pace del mondo”59. Un’idea di giustizia che non coinvolge dimensioni ed interessi particolaristici, ma l’intero genere umano. Negli anni della sua lotta, il leader sudafricano del movimento contro l’apartheid Steve Biko espresse fermamente la convinzione che, se non si reagisce di fronte all’ingiustizia, se ne diventa complici. In un articolo pubblicato sul giornale studentesco della South African Students Organization, Biko si rifece al concetto di colpa metafisica di Jaspers per descrivere efficacemente questa convinzione: “Fra gli uomini, perchè sono uomini, esiste una solidarietà in base alla quale ciascuno risponde di qualsiasi ingiustizia e torto di fronte al mondo e in particolare dei crimini commessi in sua presenza o di cui non può essere all’oscuro. Se non faccio tutto ciò che posso per 58 A. Smith, Teoria dei Sentimenti Morali, op. cit., pag. 200 59 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Preambolo. 37
  • 38. prevenirli io ne sono complice... se ho taciuto, mi ritengo colpevole in un modo che non può essere adeguatamente compreso giuridicamente, politicamente o moralmente...”60. Il messaggio di Biko era rivolto al mondo intero, affinché non rimanesse colpevolmente indifferente di fronte ad un regime razzista che offendeva il senso di giustizia dell’intero genere umano. Nel 1977 Steve Biko fu imprigionato, torturato e ammazzato dalla polizia sudafricana durante un interrogatorio nella stanza 619 del commissariato di Port Elizabeth. La sua stessa morte divenne simbolo dell’ingiustizia contro cui aveva lottato. Donald Woods, autore della biografia del leader nero, scrisse: “La morte di Steve Biko esige che si levi una reazione di sdegno gridata forte dai quattro angoli della terra. E’ stato finalmente e incontrovertibilmente stabilito che la politica dell’apartheid è il più ignobile affronto a tutta l’umanità mai escogitato da una decisione collettiva fin dal sorgere dello stato procedurale”61. L’ingiustizia che veniva messa in luce, dunque, non riguardava solamente la morte di Biko, ma l’intero sistema razzista dell’apartheid, l’esistenza di una società in cui i diritti delle persone erano divisi in misura diversa a seconda del colore della pelle, un’offesa a tutti noi in quanto membri dell’umanità. La reazione di indignazione di fronte ad esso è espressione del nostro senso di giustizia. La durezza delle parole usate da Biko e da Woods è emblematica: si può forse adottare un tono conciliante di fronte a valori rispetto ai quali non è assolutamente possibile scendere a compromessi? Le parole, in questo caso, non sono chiacchiere, ma parole di denuncia, e sono uno sprone ad agire per cambiare la realtà, anziché esserne complici silenziosi. Ecco perché ritroviamo termini altrettanto duri in un più recente articolo di Gianni Canova, nuovamente contro la guerra preventiva anglo-americana contro l’Iraq: “Questa volta sarà anche colpa nostra. Colpa di chi lascerà fare. Di chi tacerà di fronte ai massacri sperando nell’ennesimo condono fiscale. Nessuno potrà dire, questa volta, io non c’entro. O io non sapevo. (…) Se tace è complice. Ha le mani che grondano sangue. A noi, senza testa, non restano che le parole per dirlo. E per scongiurare l’ipotesi di doverci vergognare, fra vent’anni, di quel che abbiamo fatto, e di come abbiamo ridotto il mondo.”62 60 In D. Woods, Biko, Sperling & Kupfer, Milano 1989 pag. 150 61 ibidem, pag. 369 62 Gianni Canova, Noi, headless, in [Duel] 102, 02/2003, Febbraio/Marzo 2003 38
  • 39. Nel recente libretto Una lettera di Pietro Ingrao63, lo storico protagonista della politica italiana racconta un toccante episodio personale, avvenuto nel 1992 e relativo alla Guerra del Golfo. Concludere con queste parole di Ingrao appare un modo decisamente efficace per mettere in luce il modo in cui le passioni possono spingere l’individuo a cercare di cambiare la realtà, impegnandosi in prima persona: “L’altra sera (…), ho visto a Mixer alcuni filmati sui bambini iracheni colpiti durante e dopo la guerra dalle malattie e dalla penuria. Mi sono sembrati dei fatti letteralmente insopportabili. E mi sono rimproverato la mia inettitudine o defezione dinanzi a quella insopportabilità. Scusa queste parole: ho avvertito una nausea psichica. E mi sono vergognato, perché io non ho fatto e non facevo nulla di fronte a ciò che rappresentava quella realtà. Non sono sicuro che ciò si possa rappresentare come una motivazione morale. C’entrano gli «altri» in quanto la loro condizione mi «turba», e senza gli «altri» non esisto (nemmeno sarei nato)”. 63 Qui ne viene citato l’estratto pubblicato, con il significativo titolo La politica, che passione, su La Repubblica, 12 Luglio 2005 39
  • 40. “Nonostante tutte queste grane riesce a trovare ancora il tempo per leggere?” “Sì, altrimenti… che facciamo? Negli eserciti di prima, i soldati approfittavano del tempo libero per pulire le armi e rifornirsi di munizioni. E dato che le nostre armi sono le parole, dobbiamo poter ricorrere al nostro arsenale in ogni momento.”64 2. Parlare 2.1. Dall’indignazione alla parola Nel capitolo precedente è stato descritto succintamente il momento in cui, mosso dall’indignazione verso un’ingiustizia, l’individuo è spinto a mobilitare le proprie energie per denunciarla, per opporvisi e per chiedere che sia ripristinato uno stato di giustizia. L’interrogativo cruciale aperto da Boltanski poneva il problema di quale forma di reazione sia concessa all’individuo che assiste alla sofferenza di un proprio simile, senza poter però intervenire direttamente, perché troppo lontano dall’evento di cui è spettatore. Boltanski rispondeva che all’individuo reso impotente di fronte all’ingiustizia non rimane che una reazione: indignarsi. La passione dell’indignato è una passione per sua natura predisposta all’azione. Ma quando l’azione fisica è resa impossibile da qualche forma di costrizione, l’indignazione trasforma l’impulso della rabbia in azione verbale: lo strumento di cui si avvale l’indignato è la parola, che assume la forma della condanna e della protesta. Di fronte ad un sofferente sottoposto ai soprusi di un carnefice, l’indignato si scaglia contro il persecutore: condanna uno stato di cose che ritiene intollerabile e, protestando, solidarizza con la vittima e si batte perché la sua sofferenza abbia termine. E’ attraverso la parola, “la parola incontrollata, in libera circolazione, clandestina, ribelle, senza uniforme, non certificata, terrore dei tiranni”65, che è possibile ottenere quel cambiamento che l’indignato esige con risolutezza. S’è visto anche come l’atto di tacere possa essere una colpa infame quanto quella di partecipare attivamente al crimine: tacendo diventiamo complici, ovvero avalliamo uno stato di cose e in qualche modo ne siamo corresponsabili. L’opposto dello stare zitti, nel momento in cui si è a conoscenza di un’ingiustizia, è parlare. Ma, posto che tacere di 64 La clessidra degli zapatisti, intervista al subcomandante Marcos di Gabriel Garcìa Màrquez e Roberto Pombo 65 in R. Kapuscinski, Il cinico non è adatto a questo mestiere, e/o, Roma 2000, pag. 17 40