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Insegnare la shoah tra commemorazione e curricolo
                                              Alessandra Chiappano*



  In via del tutto preliminare va ricordato che un interesse diffuso sulla shoah è andato
progressivamente crescendo in questi ultimi anni, grazie alla maggiore attenzione che viene
dedicata allo studio del Novecento nell’ultimo anno di studi e alla istituzione, anche in Italia, di una
specifica giornata dedicata al ricordo di tutte le vittime della shoah e degli stermini nazisti. Nel
nostro paese è stata scelta la data del 27 gennaio, giorno in cui si aprirono i cancelli di Auschwitz.
Eppure come sottolinea George Bensoussan[1], come si può spiegare l’evidente paradosso che apre
di fronte a noi: mai come oggi la shoah, e i crimini nazisti sono stati così massicciamente insegnati,
eppure mai come ora l’antisemitismo sembra esplodere nuovamente in maniera virulenta in Europa,
come sottolineano anche recenti sondaggi.
Gli spazi che si sono progressivamente aperti per affrontare in maniera più analitica l’insegnamento
della shoah hanno finito per spingere insegnanti ed educatori ad interrogarsi su come rendere
produttivo, da un punto di vista formativo, questo insegnamento. Infatti si rende necessario e
fondamentale individuare i modi e le forme più adatte, che non ricadano nell’indicibile e che
restituiscano alla shoah il suo valore all’interno della storia del Novecento, evitando pericolose
forme di sacralizzazione, senza per questo dimenticare il fatto che molti testimoni, fra cui Primo
Levi, in alcune pagine memorabili di I sommersi e i salvati hanno sottolineato l’ impossibilità di
trasmettere una vicenda tanto estrema:


«Lo ripeto non siamo noi i superstiti i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua
siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la
Gorgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro i musulmani i sommersi, i testimoni integrali,
coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione… Noi toccati dalla
sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli
altri, dei sommersi appunto; ma è soltanto un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non
sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come
nessuno è mai tornato a raccontare la propria morte».[2]


Partendo da queste osservazioni di Levi, si è costretti ad interrogarsi sul tormentoso problema
dell’unicità della shoah, questione che negli ultimi anni ha coinvolto storici e ricercatori in un
ampio dibattito. Senza ricostruire qui analiticamente tale dibattito, sarà sufficiente ricordare che nel
lavoro dell’insegnante la comparazione è pienamente legittima e ha anche una portata euristica.
Confrontare è corretto dunque per meglio comprendere, anche perché, come ricorda Alberto
Cavaglion, l’immane portata della shoah conduce spesso ad una forma di spaesamento. Ciò non
deve condurre, come si è già osservato, a isolare la shoah, che è parte integrante del processo
storico e della storia del Novecento. Come scrive Ian Kershaw:


 «Auschwitz è finora un caso unico nella storia; ma purtroppo non c’è motivo di ritenere che un crollo della civiltà, con
analoghi orrendi risultati, non possa verificarsi altrove, con vittime differenti e differenti carnefici».[3]




Alla luce di questa osservazione è agevole comprendere che l’ unicità non esclude la
comparabilità, senza giungere però alle pericolose derive relativizzanti proposte da Ernst Nolte[4],
che finisce col ridurre lo sterminio degli ebrei ad una sorta di parentesi nell’ambito della guerra di
difesa dell’occidente contro la minaccia comunista. Così come risulta criticabile anche la teoria
opposta, che ha in Daniel Goldhagen[5] il suo più significativo sostenitore, che fa riferimento ad un
antisemitismo patologico, proprio e peculiare della nazione tedesca. Entrambe queste
interpretazioni storiografiche propongono visioni estreme, che non aiutano lo studente comprendere
un fenomeno storico così complesso ed articolato.
Occorre dunque evitare, nella prassi scolastica, di pensare alla shoah come ad un evento
sovrastorico: esso è invece intimamente legato alla storia del Novecento. Ma per meglio
comprendere questo evento, anche in una chiave formativa, occorre ripercorrere le tappe di una
vicenda di lunga durata quale è quella dell’antisemitismo, fenomeno che, con fasi più o meno
acute, si è sviluppato lungo tutto l’arco della storia umana. Ripercorrendo le tappe del pregiudizio
che si è sviluppato contro gli ebrei fin dall’antichità, si potrà comprendere che l’odio nei confronti
gli ebrei non è peculiare solo del Novecento, ma affonda le sue radici nell’età classica, anche se poi
assume una sua codificazione sempre più netta e precisa allorquando il cristianesimo si impone
come religione dominante. Sarà necessario poi riprendere e indagare le teorie razziste sviluppatesi
in tutta l’Europa Occidentale, soprattutto nel corso dell’Ottocento, quando gli europei cercarono una
giustificazione razionale, sul piano dell’ideologia, alla costruzione dei loro imperi coloniali, anche
se, in realtà, la teoria della supremazia razziale dei bianchi europei era stata ampiamente sfruttata
durante la conquista dell’America: le popolazioni indigene dell’America del Sud furono soggette ad
un vero e proprio genocidio, nella convinzione che si trattasse di omuncoli.
  Alcuni presupposti dell’ideologia nazista come il lebensraum e la necessità storica che vi
debbano essere popolazioni sottomesse ad altre considerate superiori, così come le teorie
eugenetiche poi poste in essere dal nazismo, erano largamente diffuse in Europa e Negli Stati Uniti
nel XIX secolo. Del resto, come hanno sottolineato molti storici, tra cui Hosbawm[6], una delle
caratteristiche del Novecento è stata proprio la violenza: tra il 1915 e il 1980 guerre e scontri hanno
provocato 187 milioni di vittime. Anche Enzo Traverso, che ha dedicato ampi e interessanti studi a
questo tema, definisce il Novecento come un secolo di barabarie in cui si è visto il susseguirsi di
due guerre mondiali, di infiniti conflitti regionali, di una tragica catena di genocidi: da quello
degli armeni a quello del Rwanda. Senza prescindere dunque da un quadro complesso, delineato
qui a grandi linee, Auschwitz può utilmente configurarsi come un paradigma della barbarie del
Novecento: il confronto tra la shoah e altri crimini definisce la sua singolarità, senza per questo
farne un evento metastorico, inspiegabile e quindi incomprensibile.
 Tutto questo deve tradursi in chiarezza interpretativa: la shoah è stato un unicum come ben
sintetizza Enzo Traverso:


«il genocidio ebraico è il solo nella storia ad aver perseguito il fine d’un rimodellamento biologico dell’umanità, il solo
completamente sprovvisto d’una natura strumentale, il solo in cui l’eliminazione delle vittime non fu un mezzo ma un
fine in sé ».[7]


 Partendo da questo presupposto, Traverso illustra bene la diversità fra il lager e il gulag: da una
parte, anche se violento e brutale nelle forme e nella sostanza, c’era il progetto di ricostruire una
società diversa, dall’altro un progetto di morte.[8]
Quali strumenti sono a disposizione dei docenti per una didattica capace di incidere e di non
trasformarsi in un momento a sé stante, completamente svincolato dal resto del curricolo? Quali
temi affrontare da un punto di vista meramente contenutistico per offrire un insegnamento efficace?
In questi anni si è assistito ad un uso ampio e a volte indiscriminato del testimone: molte volte la
shoah viene affrontata proprio affidando al testimone il compito di illustrare questo evento, senza
che il suo intervento sia stato precedentemente contestualizzato. Senza nulla togliere al valore dei
testimoni, che svolgono un’opera insostituibile, a prezzo anche di sofferenze personali, bisogna
tener conto del fatto che il testimone riesce in primo luogo a motivare gli studenti, a sensibilizzarli,
grazie alla potenza emotiva connessa alla testimonianza stessa, si genera tuttavia un apprendimento
veramente profondo, capace di incidere negli animi degli studenti, quando esso è inserita in un
percorso didattico che potrebbe avere nell’incontro con il testimone il momento conclusivo.
Occorre inoltre che l’insegnante sia in grado di gestire le emozioni, che inevitabilmente si
producono ascoltando storie tanto estreme, in modo che da esse scaturiscano riflessione e
conoscenza. Questo passaggio è difficilissimo, anche perché spesso, anche con i testimoni si assiste
a quel fenomeno di sacralizzazione di cui si diceva prima, che non aiuta, e non promuove una
riflessione critica e consapevole.
Quanto alle tematiche, occorre a mio giudizio proporre, pur nell’ambito della più vasta conoscenza
della shoah, alcuni aspetti più desueti, ma non per questo meno importanti o stimolanti, come lo
studio dei ghetti, o quello relativo alla resistenza ebraica, oppure rintracciare la memoria e la storia
di persone legate al luogo in cui si vive, in un felice intreccio tra storia locale e storia generale.
Queste ricerche sono peraltro già state effettuate in molte scuole, anche partendo dagli Archivi
scolastici, autentiche miniere per una ricerca storica che veda gli studenti protagonisti in primo
piano.
Infine, non si dimentichi che nell’insegnamento della shoah si ripropone il nesso storia-memoria e
l’ uso pubblico della storia. Il tema della memoria non condivisa infatti non coinvolge soltanto la
Resistenza, ma anche la storia della deportazione, che è fatta di molteplici tasselli: la deportazione
dei politici, degli internati militari, dei Testimoni di Geova, degli omosessuali, dei sinti e dei rom,
perseguitati dal nazismo con particolare violenza.[9] Sono tessere di un ampio mosaico, ma la
memoria di questi fatti non è affatto condivisa: si assiste spesso al tentativo di collocare
l’annientamento e l’assassinio operato dai nazisti su un piano strettamente gerarchico, quindi si
assegna alla deportazione ebraica un ruolo preminente, d’altra parte non manca neppure la tendenza
opposta, che tende a minimizzare la specificità della deportazione subita dagli ebrei. Entrambe
queste due tendenze sono la prova di quanto ancora oggi sia difficile accostarsi a questa materia con
la dovuta serenità di giudizio.
Last but not least, a mio avviso è fondamentale evitare che l’insegnamento della shoah si riduca
ad una serie di interventi tutti concentrati attorno al giorno della memoria (come si trattasse di un
obbligo derivante dalla legge), oppure nell’ambito del programma dell’ultimo anno di corso, senza
che si costruisca un percorso armonico che, partendo almeno dalla terza classe, dia ragione di chi
erano gli ebrei e come vivevano in quanto minoranza in una Europa cristiana ed intollerante. Solo
così, ripercorrendo a grandi linee la storia degli ebrei, dalla diaspora fino alla emancipazione, si
potrà poi ragionare sulla shoah; altrimenti si rischia che l’insegnamento di questo evento risulti
completamente de-contestualizzato, sacralizzato e su questa china è facile immaginare che non si
otterrà un apprendimento destinato a durare, ma piuttosto si alimenteranno quegli stereotipi che
sono ancora oggi molto diffusi.
Inoltre concentrare l’insegnamento della shoah in alcuni momenti canonici fa sì che si cada
inevitabilmente nella celebrazione che risulta quanto mai vuota e ripetitiva, capace solo di
ingenerare insofferenza e disinteresse. Così anche l’insegnamento della shoah, se non si troveranno
efficaci strategie per trasmettere la memoria di questo vento tragico e luttuoso, ragionando sulla
lacerazione che il mondo occidentale si è inferto, eliminando una parte della sua popolazione,
accadrà inevitabilmente che si giunga alla saturazione, che comporterà una inesorabile perdita di
quella memoria storica che si vorrebbe invece consegnare alle nuove generazioni.
Occorre infine richiamare il fatto che oggi la didattica della shoah può avvalersi di strumenti
importanti, come la visita ai luoghi o a musei specifici (penso al Museo del Deportato di Fossoli,
alla visita ai campi, alla sede della Topografia del Terrore a Berlino).
La visita ai luoghi può costituire una straordinaria opportunità formativa, ma occorre tenere in
mente alcune importanti osservazioni: essi subiscono stratificazioni, talora a causa del tempo, talora
invece le trasformazioni altro non sono che il portato dell’intervento, non sempre innocente
dell’uomo. Quindi occorre sempre operare una decostruzione del luogo e poi una sua attenta
ricostruzione, in modo da rendere consapevoli gli studenti degli eventi che si sono susseguiti in quei
luoghi, che all’occhio del presente si presentano completamente diversi (ad esempio i testimoni
parlano di Auschwitz come di un luogo desolato, senza un filo d’erba, ma oggi al visitatore non si
presenta più così). Altri luoghi della memoria, come i musei, nei loro allestimenti, devono tener
conto della politica museale e talvolta possono indurre, nel visitatore poco accorto, certi preconcetti
del tutto errati.
Come sottolinea Thomas Lutz, direttore de la Topografia del Terrore, in un intervento tenuto
durante il seminario residenziale sulla shoah svoltosi nel gennaio 2003 a Bagnacavallo[10], i
memoriali sono testimoni di pietra che non possono sostituire i testimoni oculari, ma che sono
destinati a diventare sempre più importanti, una volta che i testimoni saranno scomparsi. Occorre
quindi, a suo avviso, che si sviluppi una raffinata pedagogia all’interno dei musei che sorgono nei
pressi dei memoriali, proprio in considerazione del fatto che:


 «la pedagogia dei memoriali è di per sè educazione ai diritti fondamentali dell’uomo, anche se questi vengono trattati
partendo dall’esempio negativo della descrizione delle conseguenze connesse con un’offesa ai diritti dell’uomo. Se le
questioni relative ai diritti umani sono trattate in riferimento agli avvenimenti concreti e storici delle persecuzioni
naziste, sviluppando l’empatia con le vittime, vi è allora la possibilità effettiva di trasmettere valori persistenti, che
possano, in futuro, rafforzare, nel modo migliore, una presa di coscienza sociale e critica e la stessa democrazia».


L’insegnamento della shoah, in ultima analisi, deve a mio avviso configurarsi proprio come
educazione al rispetto e alla pacifica convivenza con l’altro e questi sono i soli mezzi a nostra
disposizione per cercare di costruire una società vivibile, non lacerata da conflitti violenti, che come
osservava Ian Kershaw, potrebbero condurre alla creazione di nuove Auschwitz.



* Responsabile settore Didattico INSMLI e Fondazione Memoria della Deportazione, Milano.
[1] George Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? Einaudi, Torino 2002.
[2] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1987 pp. 64 e ss.
[3] Ian Kershaw, Che cosa è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Bollati
Boringhieri, Torino 1995, p. 294
[4] Cfr. Gian Enrico Rusconi (a cura di) Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e
l’identità tedesca, Einaudi, Torino 1987.
[5] Daniel Golghagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Mondatori, Milano 1997.
[6] Erich J. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. di Brunello Lotti, Rizzoli, Milano 1997.
[7] Enzo Traverso, La singolarità storica di Auschwitz, problemi e derive di un dibattito in Aa. Vv,
Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondatori, Milano 1998, p. 304.
[8] Cfr. Enzo Traverso, Auschwitz memoria e singolarità in Le storie estreme del Novecento a cura
di Fabio Minazzi e Alessandra Chiappano, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca,
Roma 2002, p. 106.
[9] Di questa terribile persecuzione si sa molto poco perché i pochissimi sopravvissuti non hanno
reso testimonianza, a differenza degli ebrei e dei deportati politici, oggi è disponibile uno studio
abbastanza completo di Gunther Lewy La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino
2000.
[10] Alessandra Chiappano, Fabio Minazzi (a cura di) Il presente ha un cuore antico. Atti del
seminario residenziale sulla didattica della shoah, Thélema, Milano 2003, pp. 189-203.

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"Insegnare la Shoah", di A. Chiappano

  • 1. Insegnare la shoah tra commemorazione e curricolo Alessandra Chiappano* In via del tutto preliminare va ricordato che un interesse diffuso sulla shoah è andato progressivamente crescendo in questi ultimi anni, grazie alla maggiore attenzione che viene dedicata allo studio del Novecento nell’ultimo anno di studi e alla istituzione, anche in Italia, di una specifica giornata dedicata al ricordo di tutte le vittime della shoah e degli stermini nazisti. Nel nostro paese è stata scelta la data del 27 gennaio, giorno in cui si aprirono i cancelli di Auschwitz. Eppure come sottolinea George Bensoussan[1], come si può spiegare l’evidente paradosso che apre di fronte a noi: mai come oggi la shoah, e i crimini nazisti sono stati così massicciamente insegnati, eppure mai come ora l’antisemitismo sembra esplodere nuovamente in maniera virulenta in Europa, come sottolineano anche recenti sondaggi. Gli spazi che si sono progressivamente aperti per affrontare in maniera più analitica l’insegnamento della shoah hanno finito per spingere insegnanti ed educatori ad interrogarsi su come rendere produttivo, da un punto di vista formativo, questo insegnamento. Infatti si rende necessario e fondamentale individuare i modi e le forme più adatte, che non ricadano nell’indicibile e che restituiscano alla shoah il suo valore all’interno della storia del Novecento, evitando pericolose forme di sacralizzazione, senza per questo dimenticare il fatto che molti testimoni, fra cui Primo Levi, in alcune pagine memorabili di I sommersi e i salvati hanno sottolineato l’ impossibilità di trasmettere una vicenda tanto estrema: «Lo ripeto non siamo noi i superstiti i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro i musulmani i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione… Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è soltanto un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la propria morte».[2] Partendo da queste osservazioni di Levi, si è costretti ad interrogarsi sul tormentoso problema dell’unicità della shoah, questione che negli ultimi anni ha coinvolto storici e ricercatori in un ampio dibattito. Senza ricostruire qui analiticamente tale dibattito, sarà sufficiente ricordare che nel lavoro dell’insegnante la comparazione è pienamente legittima e ha anche una portata euristica. Confrontare è corretto dunque per meglio comprendere, anche perché, come ricorda Alberto Cavaglion, l’immane portata della shoah conduce spesso ad una forma di spaesamento. Ciò non deve condurre, come si è già osservato, a isolare la shoah, che è parte integrante del processo storico e della storia del Novecento. Come scrive Ian Kershaw: «Auschwitz è finora un caso unico nella storia; ma purtroppo non c’è motivo di ritenere che un crollo della civiltà, con analoghi orrendi risultati, non possa verificarsi altrove, con vittime differenti e differenti carnefici».[3] Alla luce di questa osservazione è agevole comprendere che l’ unicità non esclude la comparabilità, senza giungere però alle pericolose derive relativizzanti proposte da Ernst Nolte[4], che finisce col ridurre lo sterminio degli ebrei ad una sorta di parentesi nell’ambito della guerra di
  • 2. difesa dell’occidente contro la minaccia comunista. Così come risulta criticabile anche la teoria opposta, che ha in Daniel Goldhagen[5] il suo più significativo sostenitore, che fa riferimento ad un antisemitismo patologico, proprio e peculiare della nazione tedesca. Entrambe queste interpretazioni storiografiche propongono visioni estreme, che non aiutano lo studente comprendere un fenomeno storico così complesso ed articolato. Occorre dunque evitare, nella prassi scolastica, di pensare alla shoah come ad un evento sovrastorico: esso è invece intimamente legato alla storia del Novecento. Ma per meglio comprendere questo evento, anche in una chiave formativa, occorre ripercorrere le tappe di una vicenda di lunga durata quale è quella dell’antisemitismo, fenomeno che, con fasi più o meno acute, si è sviluppato lungo tutto l’arco della storia umana. Ripercorrendo le tappe del pregiudizio che si è sviluppato contro gli ebrei fin dall’antichità, si potrà comprendere che l’odio nei confronti gli ebrei non è peculiare solo del Novecento, ma affonda le sue radici nell’età classica, anche se poi assume una sua codificazione sempre più netta e precisa allorquando il cristianesimo si impone come religione dominante. Sarà necessario poi riprendere e indagare le teorie razziste sviluppatesi in tutta l’Europa Occidentale, soprattutto nel corso dell’Ottocento, quando gli europei cercarono una giustificazione razionale, sul piano dell’ideologia, alla costruzione dei loro imperi coloniali, anche se, in realtà, la teoria della supremazia razziale dei bianchi europei era stata ampiamente sfruttata durante la conquista dell’America: le popolazioni indigene dell’America del Sud furono soggette ad un vero e proprio genocidio, nella convinzione che si trattasse di omuncoli. Alcuni presupposti dell’ideologia nazista come il lebensraum e la necessità storica che vi debbano essere popolazioni sottomesse ad altre considerate superiori, così come le teorie eugenetiche poi poste in essere dal nazismo, erano largamente diffuse in Europa e Negli Stati Uniti nel XIX secolo. Del resto, come hanno sottolineato molti storici, tra cui Hosbawm[6], una delle caratteristiche del Novecento è stata proprio la violenza: tra il 1915 e il 1980 guerre e scontri hanno provocato 187 milioni di vittime. Anche Enzo Traverso, che ha dedicato ampi e interessanti studi a questo tema, definisce il Novecento come un secolo di barabarie in cui si è visto il susseguirsi di due guerre mondiali, di infiniti conflitti regionali, di una tragica catena di genocidi: da quello degli armeni a quello del Rwanda. Senza prescindere dunque da un quadro complesso, delineato qui a grandi linee, Auschwitz può utilmente configurarsi come un paradigma della barbarie del Novecento: il confronto tra la shoah e altri crimini definisce la sua singolarità, senza per questo farne un evento metastorico, inspiegabile e quindi incomprensibile. Tutto questo deve tradursi in chiarezza interpretativa: la shoah è stato un unicum come ben sintetizza Enzo Traverso: «il genocidio ebraico è il solo nella storia ad aver perseguito il fine d’un rimodellamento biologico dell’umanità, il solo completamente sprovvisto d’una natura strumentale, il solo in cui l’eliminazione delle vittime non fu un mezzo ma un fine in sé ».[7] Partendo da questo presupposto, Traverso illustra bene la diversità fra il lager e il gulag: da una parte, anche se violento e brutale nelle forme e nella sostanza, c’era il progetto di ricostruire una società diversa, dall’altro un progetto di morte.[8] Quali strumenti sono a disposizione dei docenti per una didattica capace di incidere e di non trasformarsi in un momento a sé stante, completamente svincolato dal resto del curricolo? Quali temi affrontare da un punto di vista meramente contenutistico per offrire un insegnamento efficace? In questi anni si è assistito ad un uso ampio e a volte indiscriminato del testimone: molte volte la shoah viene affrontata proprio affidando al testimone il compito di illustrare questo evento, senza che il suo intervento sia stato precedentemente contestualizzato. Senza nulla togliere al valore dei testimoni, che svolgono un’opera insostituibile, a prezzo anche di sofferenze personali, bisogna tener conto del fatto che il testimone riesce in primo luogo a motivare gli studenti, a sensibilizzarli,
  • 3. grazie alla potenza emotiva connessa alla testimonianza stessa, si genera tuttavia un apprendimento veramente profondo, capace di incidere negli animi degli studenti, quando esso è inserita in un percorso didattico che potrebbe avere nell’incontro con il testimone il momento conclusivo. Occorre inoltre che l’insegnante sia in grado di gestire le emozioni, che inevitabilmente si producono ascoltando storie tanto estreme, in modo che da esse scaturiscano riflessione e conoscenza. Questo passaggio è difficilissimo, anche perché spesso, anche con i testimoni si assiste a quel fenomeno di sacralizzazione di cui si diceva prima, che non aiuta, e non promuove una riflessione critica e consapevole. Quanto alle tematiche, occorre a mio giudizio proporre, pur nell’ambito della più vasta conoscenza della shoah, alcuni aspetti più desueti, ma non per questo meno importanti o stimolanti, come lo studio dei ghetti, o quello relativo alla resistenza ebraica, oppure rintracciare la memoria e la storia di persone legate al luogo in cui si vive, in un felice intreccio tra storia locale e storia generale. Queste ricerche sono peraltro già state effettuate in molte scuole, anche partendo dagli Archivi scolastici, autentiche miniere per una ricerca storica che veda gli studenti protagonisti in primo piano. Infine, non si dimentichi che nell’insegnamento della shoah si ripropone il nesso storia-memoria e l’ uso pubblico della storia. Il tema della memoria non condivisa infatti non coinvolge soltanto la Resistenza, ma anche la storia della deportazione, che è fatta di molteplici tasselli: la deportazione dei politici, degli internati militari, dei Testimoni di Geova, degli omosessuali, dei sinti e dei rom, perseguitati dal nazismo con particolare violenza.[9] Sono tessere di un ampio mosaico, ma la memoria di questi fatti non è affatto condivisa: si assiste spesso al tentativo di collocare l’annientamento e l’assassinio operato dai nazisti su un piano strettamente gerarchico, quindi si assegna alla deportazione ebraica un ruolo preminente, d’altra parte non manca neppure la tendenza opposta, che tende a minimizzare la specificità della deportazione subita dagli ebrei. Entrambe queste due tendenze sono la prova di quanto ancora oggi sia difficile accostarsi a questa materia con la dovuta serenità di giudizio. Last but not least, a mio avviso è fondamentale evitare che l’insegnamento della shoah si riduca ad una serie di interventi tutti concentrati attorno al giorno della memoria (come si trattasse di un obbligo derivante dalla legge), oppure nell’ambito del programma dell’ultimo anno di corso, senza che si costruisca un percorso armonico che, partendo almeno dalla terza classe, dia ragione di chi erano gli ebrei e come vivevano in quanto minoranza in una Europa cristiana ed intollerante. Solo così, ripercorrendo a grandi linee la storia degli ebrei, dalla diaspora fino alla emancipazione, si potrà poi ragionare sulla shoah; altrimenti si rischia che l’insegnamento di questo evento risulti completamente de-contestualizzato, sacralizzato e su questa china è facile immaginare che non si otterrà un apprendimento destinato a durare, ma piuttosto si alimenteranno quegli stereotipi che sono ancora oggi molto diffusi. Inoltre concentrare l’insegnamento della shoah in alcuni momenti canonici fa sì che si cada inevitabilmente nella celebrazione che risulta quanto mai vuota e ripetitiva, capace solo di ingenerare insofferenza e disinteresse. Così anche l’insegnamento della shoah, se non si troveranno efficaci strategie per trasmettere la memoria di questo vento tragico e luttuoso, ragionando sulla lacerazione che il mondo occidentale si è inferto, eliminando una parte della sua popolazione, accadrà inevitabilmente che si giunga alla saturazione, che comporterà una inesorabile perdita di quella memoria storica che si vorrebbe invece consegnare alle nuove generazioni. Occorre infine richiamare il fatto che oggi la didattica della shoah può avvalersi di strumenti importanti, come la visita ai luoghi o a musei specifici (penso al Museo del Deportato di Fossoli, alla visita ai campi, alla sede della Topografia del Terrore a Berlino). La visita ai luoghi può costituire una straordinaria opportunità formativa, ma occorre tenere in mente alcune importanti osservazioni: essi subiscono stratificazioni, talora a causa del tempo, talora invece le trasformazioni altro non sono che il portato dell’intervento, non sempre innocente dell’uomo. Quindi occorre sempre operare una decostruzione del luogo e poi una sua attenta
  • 4. ricostruzione, in modo da rendere consapevoli gli studenti degli eventi che si sono susseguiti in quei luoghi, che all’occhio del presente si presentano completamente diversi (ad esempio i testimoni parlano di Auschwitz come di un luogo desolato, senza un filo d’erba, ma oggi al visitatore non si presenta più così). Altri luoghi della memoria, come i musei, nei loro allestimenti, devono tener conto della politica museale e talvolta possono indurre, nel visitatore poco accorto, certi preconcetti del tutto errati. Come sottolinea Thomas Lutz, direttore de la Topografia del Terrore, in un intervento tenuto durante il seminario residenziale sulla shoah svoltosi nel gennaio 2003 a Bagnacavallo[10], i memoriali sono testimoni di pietra che non possono sostituire i testimoni oculari, ma che sono destinati a diventare sempre più importanti, una volta che i testimoni saranno scomparsi. Occorre quindi, a suo avviso, che si sviluppi una raffinata pedagogia all’interno dei musei che sorgono nei pressi dei memoriali, proprio in considerazione del fatto che: «la pedagogia dei memoriali è di per sè educazione ai diritti fondamentali dell’uomo, anche se questi vengono trattati partendo dall’esempio negativo della descrizione delle conseguenze connesse con un’offesa ai diritti dell’uomo. Se le questioni relative ai diritti umani sono trattate in riferimento agli avvenimenti concreti e storici delle persecuzioni naziste, sviluppando l’empatia con le vittime, vi è allora la possibilità effettiva di trasmettere valori persistenti, che possano, in futuro, rafforzare, nel modo migliore, una presa di coscienza sociale e critica e la stessa democrazia». L’insegnamento della shoah, in ultima analisi, deve a mio avviso configurarsi proprio come educazione al rispetto e alla pacifica convivenza con l’altro e questi sono i soli mezzi a nostra disposizione per cercare di costruire una società vivibile, non lacerata da conflitti violenti, che come osservava Ian Kershaw, potrebbero condurre alla creazione di nuove Auschwitz. * Responsabile settore Didattico INSMLI e Fondazione Memoria della Deportazione, Milano. [1] George Bensoussan, L’eredità di Auschwitz. Come ricordare? Einaudi, Torino 2002. [2] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1987 pp. 64 e ss. [3] Ian Kershaw, Che cosa è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 294 [4] Cfr. Gian Enrico Rusconi (a cura di) Germania: un passato che non passa. I crimini nazisti e l’identità tedesca, Einaudi, Torino 1987. [5] Daniel Golghagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Mondatori, Milano 1997. [6] Erich J. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. di Brunello Lotti, Rizzoli, Milano 1997. [7] Enzo Traverso, La singolarità storica di Auschwitz, problemi e derive di un dibattito in Aa. Vv, Nazismo, fascismo, comunismo, a cura di Marcello Flores, Bruno Mondatori, Milano 1998, p. 304. [8] Cfr. Enzo Traverso, Auschwitz memoria e singolarità in Le storie estreme del Novecento a cura di Fabio Minazzi e Alessandra Chiappano, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, Roma 2002, p. 106. [9] Di questa terribile persecuzione si sa molto poco perché i pochissimi sopravvissuti non hanno reso testimonianza, a differenza degli ebrei e dei deportati politici, oggi è disponibile uno studio abbastanza completo di Gunther Lewy La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2000. [10] Alessandra Chiappano, Fabio Minazzi (a cura di) Il presente ha un cuore antico. Atti del seminario residenziale sulla didattica della shoah, Thélema, Milano 2003, pp. 189-203.